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La lingua italiana, così bella da spiccare

Giovanni Galetta mi invia un ricordo esilarante. Ve lo ripropongo.

Corso di marketing in Bocconi. Fra i tanti partecipanti ce n’è uno, il direttore commerciale di un’azienda di rivestimenti, che trascrive avidamente (e poi ripete a bassa voce) tutti i termini anglosassoni, brand strategy, feedback, customer care… con l’ovvio intento di sfoggiarli poi coi suoi venditori.

Quando coglie il termine ambaradan, usato dal docente milanese per indicare un generico “tutto”, gli si accende chissà quale lampadina nella testa: interrompe la lezione ed esige spiegazioni dettagliate senza cogliere, poveretto, i mormorii ironici che riempirono l’aula né l’acidità del docente, che gli consiglia di non confondere ambaradan con ambarabà (quello che poi ciccì coccò, tre civette sul comò).

Lui non fa una piega: annuisce e trascrive tutto.

Per inciso: brand strategy = strategia di marca, feedback = commento, opinione, risposta, riscontro o (più tecnicamente) retroazione, customer care = assistenza clienti.

Ho sempre avuto il sospetto che i massimi tifosi dei termini inglesi sparsi a caso nel discorso, come petali di rose sulla strada della processione, fossero persone che non sanno l’inglese.

Così, la parola esotica assume una potenza misteriosa, che trascende il suo significato, e per esempio meeting appare infinitamente più moderno, tecnologico ed efficace di una qualsiasi riunione nostrana.

Giuseppe Antonelli, invece, condivide (grazie!) l’articolo di Gianni Mura, che se la piglia con il profluvio di spending review, red carpet e jobs act sui quotidiani, e poi segnala la recente richiesta dell’Accademia della Crusca di considerare l’italiano lingua costituzionale.

Chiariamoci: non ce l’ho su con l’inglese, né con alcuna altra lingua straniera.

Ho anche scritto di recente un elogio sfegatato dell’essere bilingui.

Non ce l’ho su nemmeno con chi non parla inglese alla perfezione: anch’io lo mastico peggio di quanto vorrei e mi porto a casa di buon grado i miei strafalcioni sia quando parlo, sia quando scrivo.

Infine, non ce l’ho su neanche coi molti termini inglesi, da toast a mouse, che usiamo correntemente: del resto anche l’inglese comprende molte più parole di origine italiana di quanto possiamo immaginare.

Quella che mi sembra deplorevole è la debordante marmellata di termini inglesi sparsi del tutto a capocchia e inutilmente (essendo vivi, vegeti e precisi i corrispondenti termini nella nostra lingua) all’interno di un discorso in italiano.

Tra l’altro: segnalo che la deleteria idea di tenere tutti (tutti!) i corsi di laurea specialistica in inglese potrebbe avere la conseguenza di azzerare, dopo un po’, l’impiego e la memoria di una quantità di termini specialistici in italiano. Così, potremmo avere ingegneri civili che, nei cantieri, discutono (auguri!) coi muratori bergamaschi o albanesi della posa in opera di un joist perché non sanno dire “putrella”, e non hanno idea di quale sia la differenza italiana tra joist, balk e cantilever. Se no, chirurghi che non sanno che cosa domandare in italiano allo strumentista. E magari linguisti che usano termini inglesi a proposito della lingua italiana medesima. La questione è, a oggi, ancora aperta.

Infine: sono stata poche settimane fa a New York, che letteralmente trabocca di parole italiane, e che adesso ha un sindaco con un nome italiano, il quale parla (bene) in italiano, e ha un figlio che si chiama Dante. Aggiungo che la lingua italiana è non solo la sesta al mondo tra le più parlate, ma è anche la quarta lingua più studiata. Tutti buoni motivi per cui, se uno nasce, studia, lavora, vive e respira in Italia, è buono e giusto, oibò, che spicchi l’italiano.

Lingua la quale, di suo, ha tutti i numeri e le qualità per spiccare.

Annamaria Testa