per una nuova cultura della comunicazione

Comunico - Numero 4

Pro memoria

Questo numero di Comunico si rivolge particolarmente ai giovani. A chi, come le mie figlie Clara e Cecilia, sara’ adolescente nel Terzo Millennio. A tutti coloro che possono davvero creare un mondo diverso. Ogni generazione ha tentato di cambiare le cose. Forse nessuna come la mia (avevo 16 anni nel 1968) ha creduto veramente di riuscire a farlo. L’immaginazione al potere era uno slogan di quei tempi. Volevamo cambiare l’Italia, cambiare il mondo, crescere tutti insieme in un grande, fraterno abbraccio. Oggi, a due anni dalla fine del millennio, le cose stanno veramente cambiando con grande velocita’. Il passaggio da un’epoca ad un’altra, il non sapere cosa ci attende dall’altra parte del guado, spesso crea insicurezza e ansia. E allora? Qual e’ il messaggio che Comunico vuol dare ai giovani.
Qual e’ il Pro memoria per il Terzo Millennio? Potra’ sembrarvi banale, ma l’unica nostra certezza e’ il passato, non il futuro. Nessun popolo puo’ pensare di evolversi verso una nuova realta’ se perde il proprio retaggio. La memoria e’ quell’accumularsi di emozioni, di sensazioni, di informazioni e di immagini che costituiscono il patrimonio personale di ciascuno di noi ma, uscendo dal soggettivo, la memoria e’ la storia della nostra famiglia, della nostra gente, del nostro popolo. Cosa c’entra questo discorso con una rivista di comunicazione? L’uomo ha inventato la comunicazione soprattutto per tramandare la memoria. A partire da quel nostro antenato che graffiava la roccia per lasciare un segno tangibile del proprio passaggio, via via fino alla scrittura, ai suoni registrati, alle fotografie, al cinema, ai moderni dischetti ottici. La comunicazione e’ cambiata e sta cambiando ogni giorni di piu’. Si’ al cambiamento, ma senza dimenticare il passato. Purtroppo la cultura di oggi ci educa, con i suoi mezzi, a ritenere il presente la sola realta’. La velocita’ della nostra vita sembra assorbirci in un continuo presente, si vive di corsa: lavoro, studio, fast food, spot in TV e… a nanna. Ma senza la memoria non si sa da dove si viene, e se non si sa da dove si viene, non si puo’ pensare di andare avanti. Sarebbe come camminare in mezzo alla nebbia.
Questo e’ il Pro memoria per il Terzo Millennio.

Subdola, ingannevole, inaffidabile, incompleta.
La memoria ha un sacco di limiti.
Che sia proprio in quelli la vera forza della vita?
La memoria e’ una brutta bestia. Cosi’ almeno si dice dalle mie parti per affermare che trattasi di cosa caratterizzata da subdola etiamque aspra complessita’, difficile nell’approccio quanto nella gestione e pure con tratti di ingannevolezza congenita, come direbbesi di ardua impresa e rischiosa o di rapporto coniugale tendente al conflitto. Una brutta bestia, appunto. Non e’ colpa sua, benintesi, ma e’ fatta cosi’. In realta’ occorrerebbe fare un passo indietro e metterci subito d’accordo su che cos’e’ la memoria, pero’ questo ci porterebbe via troppa attenzione. Allora decido io per tutti: memoria, in questo mio spazio dichiaratamente egocentrico significa ricordo, singularia tantum per l’insieme dei ricordi, ovvero delle registrazioni psicosomatiche di cio’ che viviamo.
Interpretazione
Qui nasce il primo inghippo, perche’ la registrazione non e’ una “copia del vissuto” riposta talquale nell’archivio del cervello, bensi’ l’interpretazione nostra del fatto (del pensiero, della sensazione, del rapporto). Hai mai visto due testimoni dello spesso accadimento che, dopo averlo vissuto fianco a fianco, lo raccontino allo stesso modo? Ma neanche i colori sono gli stessi, ne’ le distanze, ne’ le pietre o la consecutio temporum! Brava gente, per carita’, ma la memoria e’ una brutta bestia. Poi c’e’ l’inghippo dell’inghippo, costituito dal temp quello che ieri eravamo pronti a giurare fosse la realta’ vissuta, oggi perde un pezzo (una sfumatura, un dettaglio, un riflesso nello specchio), domani un accento, e dopodomani siamo li’ a giurare il falso, direbbe il pm. In perfetta buona fede, ma che cavolo possiamo farci se ci e’ cambiato l’umore, se la cervicale dice la sua o ci siamo innamorati di Marina? Psicosomatica e’ la bestia, e dunque chimicamente instabile. Anche. Non e’ finita, anzi, adesso viene il bello. Inaffidabile come processo e di scarsa qualita’ come registrazione, la memoria e’ inoltre maledettamente televisiva. Orrore! La sola parola evoca tristezze blobbiche o, ancor peggio revivalistiche macumbe da impotenza istantanea.
Solo un telefilm
Ma non e’ questo il senso, sia reso grazie al Creatore ed Autore del sistema (almeno per questa parte di cerebrosoftware); il problema e’ invece che il ricordo non puzza. Il filmato mnemonico di fatto non suda, non gela, non e’ punto dalle zanzare e non guarda l’orologio. Niente sensi. Ma io invece ricordo benissimo… Non e’ ver e’ pura e semplice realta’ virtuale. Con sensi virtuali, temperature virtuali, cronologie virtuali. Inutile girarci intorn la memoria e’ fatta di telefilm. L’affermazione non e’ da poco, tanti storici squartamenti sono avvenuti per molto meno. Cosi’, ad evitare inutili spargimenti di interiora, o ancor peggio, genocidi globali inveleniti da pareri di esperti, mi spiego con un esempio di comune erotism pensiamo d’acchito, naturalmente ognuno per proprio conto, a che cosa significa fare l’amore. Pausa.
(Il richiamare quei momenti richiede uno stacco, la messa a fuoco vuole un attimo di intimo abbandono, il recuperare una posizione da osservatore ha bisogno di qualche minuto. E frattanto non si legge, presumo.) Bene, siamo tornati in conclave. Ora, ben lungi da me tentare di violare le altrui (nostre, vostre) personalissime esperienze, pero’, anche stando sulle generali, che cosa possiamo notare di oggettivamente comune? Quest nella scena che ci scorre davanti agli occhi mentali, non c’e’ affanno, non ci sono soluzioni di continuita’ e ganci testardi, nulla gratta fastidiosamente la schiena, le mani non sudano, la pelle che esse sfiorano e’ liscia e con inestetismi irrilevanti, non percepiamo il fiato di chi abbiamo a due millimetri e tantomeno il suo grado aromatico, doloretti muscolari e stiramenti di tendini da posizione anomala brillano per assenza, il rumore esterno non esiste, la scena e’ totalmente nostra. Voila’: e’ esattamente come davanti al mefitico schermo. O voi siete di quelli che sentono uscire dal tubo catodico il lercio afrore di John Wayne dopo 37 giorni di cavalcata ininterrotta, il bruciore del suo fondo schiena e le sue fitte alla colonna vertebrale (a me basterebbero 37 minuti di cavallo, ma certo non sono il mitico John)?
Di quelli che percepiscono per davvero il dolore lancinante per lo schianto della mandibola triturata dal cazzotto o hanno la bocca impastata dalla polvere della pista infinita? Di quelli che avvertono la nausea cloacale al risveglio da una sbornia o il puzzo nauseabondo della ferita infettata dalla freccia precisa-ma-non-troppo-di-orso-che-corre-ma-non-cucca? Via, ragazzi, siamo seri: noi, tutti quanti, ci fermiamo in realta’ al dato visivo, alla pura bevuta contemplativa. Davanti alla televisione come nel ricordare. Il resto e’ oblio. Questo e’ il dato.
L’inganno del virus
Dunque inghippo che piu’ inghippo non si puo’. Perche’, come se non bastasse, a coronamento del tutto il programma contiene un virus. Ineliminabile, connaturato, indefettibile. Quale? Ci arrivo subito. Prima pero’ voglio solo rimarcare che, se l’animaletto non ci fosse, beh, potremmo considerare la memoria come una delle tante caratteristiche che ci connotano quali esseri limitati. Che so, abbiamo gambe che non ci spingono piu’ di tanto in alto ne’ in corsa, braccia che riescono a sollevare il nostro corpo con estrema fatica, occhi che vedono fino ad un certo punto, e cosi’ via.
Limiti, da accettarsi razionalmente, senza drammi. (Ogni tanto si sogna di volare, ad esempio, ma sappiamo sempre che di sogno si tratta. Icaro a parte.) Cosi’ avremmo potuto anche accettare una memoria lacunosa e labile, why not, e farcene una ragione. Invece no, c’e’ il virus che ci frega, e il suo nome e’ “credibilita’”: spontaneamente quanto inconsciamente, vale a dire istintivamente noi crediamo alla nostra memoria. La prendiamo per la realta’ vera, ci immedesimiamo nella rappresentazione del passato sino al punto da sentirla sul serio come una ripetizione del vissuto, o meglio, una registrazione fedele. E questo e’ fonte di innumeri guai.
Innanzi tutto se il fatto ricordato e’ di natura piacevole (vedi il far l’amore), una volta rimossi (molto rapidamente) tutti i fastidi connessi, non ci par vero di ripetere l’esperienza, idealizzandola e quindi andando incontro a nuove noiose delusioni. Che poi a loro volta verranno subito cancellate dal nastro o passate in un nebbioso sottofondo, e via cosi’ per la gioia di Eros e la continuazione della specie. Altrettanto dicasi per il non cibo, per la vita in campeggio, per i viaggi, per la pratica sportiva, per il fai-da-te e per tutte le altre amenita’. Li’ per li’ scatta infatti regolarmente un sano “ma chi me lo ha fatto fare?”, poi pero’ lo facciamo di nuovo con immutata attesa della felicita’ (piacere, soddisfazione, gratificazione, consenso, e quant’altro abbiamo inventato per motivare la ricaduta).
Siamo allora esseri completamente stupidi, tutti quanti? Ma no, non avviliamoci cosi’: la colpa e’ del virus. Se lui cancella sistematicamente fiatone, mal di testa, voltastomaco, puzza e crampi dalle nostre registrazioni mnemoniche, come possiamo difenderci? In realta’ non possiamo far altro che credere alla proiezione ideale che dopo qualche tempo ci viene proposta e ripartire con fiero cipiglio. Qualcuno dalla sala mi sta suggerendo che, se cosi’ non fosse, dopo la prima infornata di mostriciattoli urlanti di notte, pretenziosi d’ogni cura e per un’eternita’ inabili alla caccia, non vi sarebbero piu’ stati bambini; che, pur non essendo tanto tragici, comunque non vi sarebbe piu’ turismo, ne’ sport, ne’ attivita’ faticose in genere, sparirebbero ristoranti e fabbricanti di alcolici, ma di gradino in gradino anche il lavoro non avrebbe piu’ senso in quanto nessuno desidererebbe piu’ nulla e, insomma, la vita si spegnerebbe in ogni caso. Ohibo’, e’ vero, a ben pensarci. Vuoi vedere che la vita puo’ continuare proprio per l’inganno perpetrato dal virus? Sono arrivato a una seria ipotesi di lavoro, che con grande generosita’ allargo a tutti voi. Frattanto pero’, immemore dei fischi, dei fiaschi e di tutte le zanzare che mi hanno punto nel corso degli anni, sorrido a un futuro in cui, barba bianca e camino acceso, raccontero’ ad angelici putti-nipoti: “C’era una volta…”. E ci credero’. Beato me.

Sono in molti a studiare il cervello, oggi. Il segreto del pensiero esercita un fascino innegabile. Tutti ne parlano, specialisti e ricercatori, tutti compiono verifiche, osservano nei dettagli i neuroni piu’ ramificati o le pieghe piu’ oscure del comportamento umano e animale. Ogni funzione comandata dal cervello, rivela pero’ una grande complessita’. Se una sensazione semplice mette in gioco un numero enorme di connessioni tra neuroni, e’ difficile immaginare quale e quanto lavoro richieda un pensiero complesso.

Al di la’ del proprio naso
Quello che spesso manca e’ lo sguardo d’insieme sul problema. Mente, cervello, comportamento, pensiero, ragione o psiche sono parole dal significato diverso, ma con un oggetto unico – di cui spesso si dimentica l’unicita’ – e che prende corpo solo nelle sue singole parti. La memoria, in questo contesto, ha una parte importante: viene studiata a fondo per la sua influenza nella formazione dell’individuo, nell’apprendimento e nello scambio delle informazioni. Agli albori delle ricerche sull’Intelligenza Artificiale, negli anni di cieca infatuazione per la tecnologia, si sperava che le macchine potessero pensare. Che fossero sistemi intelligenti. La memoria di un calcolatore veniva intesa come un vasto archivio di soluzioni disponibili e ordinate. Fornita dal programmatore, dalla sua esperienza di uomo, la memoria istruiva la macchina a eseguire delle azioni rigidamente calcolate. Niente a che vedere con la memoria reale. Infatti i primi progetti di IA naufragarono presto.
Ci sono due tipi di memoria: innanzitutto la memoria dei geni, perche’ l’individuo di oggi e’ il frutto di molteplici generazioni di organismi che hanno vissuto in passato. Le risposte ai problemi di adattamento sono inscritte nel patrimonio genetico di milioni di individui che li hanno gia’ affrontati. E questa e’ una cosa difficile da riprodurre in una macchina. L’altra memoria, che nasce e cresce con l’individuo, deriva dalle relazioni col mondo esterno. Grazie a questa e’ possibile avere delle intenzioni, fare delle scelte e delle valutazioni proprie; e’ conoscenza, progresso e vita. Allora “memoria” non significa “archivio”? No davvero, perche’ la memoria dell’uomo e’ un sistema evolutivo, che sceglie, seleziona e aumenta il suo patrimonio in un flusso continuo di informazioni, scambi e ripetizioni. I ricordi inutili o poco utilizzati lentamente spariscono, lasciando pochi resti, fossili, come di animali ormai estinti.
La neurogenesi e’ influenzata sia da fattori genetici ereditari sia da fattori ambientali esterni all’individuo; piu’ una specie e’ primitiva e piu’ il cervello resta sotto il controllo dei geni, cioe’ dei bisogni primari. Le specie comparse per ultime (i mammiferi) possiedono al contrario un maggior grado di risposta e adattamento ai fattori ambientali. L’uomo deriva dai geni la sua organizzazione cerebrale, ma ne e’ il meno influenzato tra gli esseri, perche’ ottiene dall’esterno la sua piu’ grande peculiarita’: la cultura.

Homo Sapiens?
Le macchine, invece, pur costruite a somiglianza del cervello umano, con modelli fedeli delle connessioni neuronali, non hanno questa memoria, poiche’ manca loro una funzione di valutazione dei bisogni primari che sia autonoma, non predeterminata dal costruttore umano. Una sorta di codice genetico. Ne’ una memoria, ne’ un passato diverso da quello imposto dall’uomo; le macchine sono sistemi non evolutivi. Ricordiamo, allora, perche’ fa parte della nostra natura. Eppure lo facciamo sempre meno. Avere una buona memoria significa appartenere a pieno titolo alla cultura e alla societa’ in cui viviamo. Significa evolversi, scegliere in modo selettivo, crescere e accrescere ogni giorno la nostra umanita’. Chi non ricorda, chi vede le cose soltanto a frammenti, chi non e’ curioso e non ha voglia di capire, perde la parte piu’ importante dell’essere uomo – sapiens – l’essere piu’ evoluto del nostro mondo, l’unico che scrive, legge, costruisce, tramanda e distrugge.

Il deja vu: un’esperienza a volte divertente, come nelle piccole occasioni quotidiane, a volte angosciante, come in questo racconto.

(Stronza…)
Era passato tanto tempo. Ma in Lorenzo il pensiero di Rossella suscitava ancora le stesse, rabbiose frustrazioni. Il loro rapporto era stato intens un periodo felice, anche se minato da un’incessante difficolta’ a comprendersi. Lui, patologicamente insicuro, era convinto di avere trovato il sostegno che gli mancava; lei, passionale, si era lasciata intenerire dai suoi infantilismi ma non ne era mai stata davvero innamorata. E alla fine l’aveva lasciato. “Lorenzo!”
La voce di Giovanni lo scosse dal torpore delle sue memorie. In quella vacanza gli amici erano riusciti a distrarlo. Erano partiti in venti, e avevano girato gli Stati Uniti sino alle soglie del Grand Canyon. Adesso erano rimasti in quattr lui, Giovanni con la fidanzata ed Emilia.
(Dio, quant’e’ bella…)
Carnagione scura, riccioluti capelli neri ad accarezzarne le gracili spalle, questa ragazza era da tempo il sogno proibito di Lorenzo. Gli piaceva per il carattere, forte ma non aggressivo, e ne gradiva anche la presenza fisica, sensuale ma mai appariscente. Lorenzo seguiva i saluti fra lei e l’amico come uno spettatore lontano. In lui le sensazioni divampavano come tanti fuochi su una brace sopita: il desiderio, troppe volte sacrificato sull’altare di una sofferta solitudine; la passione, repressa dal timore di soffrire ancora; la sicurezza dei tempi andati, in continua lotta contro inibizioni soffocanti. Ma aveva anche paura. Paura di iniziare una nuova storia, di non reggere il confronto con una ragazza estroversa e impulsiva, di venire tradito un’altra volta. Erano i residui di un doloroso passato che non cessavano di fagocitare il presente. Le strette di mano e gli abbracci si erano ormai esauriti. Giovanni era salito sulla sua auto e aveva messo in moto; al suo fianco, la compagna si sbracciava in un nuovo, sorridente saluto attraverso i vetri. Emilia poggio’ la sua mano sulla spalla di Lorenzo. Lui la guardo’ con affetto, venendone ricambiato da un’occhiata raggiante. Il loro furgoncino, un camper nuovo di zecca noleggiato un’ora prima, era li’ a pochi passi sotto i raggi di un sole impietoso. Il gruppo si era sciolto, non restavano che loro due.
“Andiamo, Lory!”, si raccomando’ lei. “Meglio sfruttare il giorno”.
Lui le strizzo’ l’occhio. Sali’ al posto di guida e avvio’ il camper nei meandri del deserto.

La citta’ scomparsa
“Beh…?”.
Lorenzo freno’ d’impatto. Erano passate sei ore dalla partenza: tempi e percorsi erano stati rispettati alla virgola, la strada si era dipanata tranquilla e priva di sorprese. Ma dietro all’ultima montagna qualcosa non quadrava. “E dov’e’?”.
Emilia afferro’ la mappa. La Highway 45 partiva dai confini del Colorado e portava dritta dritta in Nevada, impossibile sbagliare.
“Fa’ vedere a me”.
Al di la’ dell’ultimo rilievo roccioso avrebbe dovuto comparire Las Vegas: invece non c’era che una nuova distesa di deserto, addirittura piu’ arida della precedente. Chi ci capiva era proprio bravo.
“Lo vedo che siamo qui, ma…”.
Lorenzo alzo’ gli occhi dalla cartina e medito’ brevemente sull’insolito panorama.
“…Si vede che abbiamo sbagliato i calcoli”, aggiunse sottovoce.
La ragazza era delusa: il fuori programma le aveva come strappato il sorriso. A lui questo faceva male, ma a inquietarlo c’era pure un altro particolare: il deserto che avevano dinnanzi gli dava uno strano, inspiegabile senso di angoscia. Ne era stato consapevole da subito, appena aveva scorto le sue monotone sporgenze oltre le rocce, pero’ non ne capiva ancora le ragioni. Tento’ di lasciar perdere e riprese il percorso. Sterminata, cosparsa di un terriccio arido e pesante, quella specie di valle della morte sembrava capitata sulla terra per sbaglio. Dal deserto precedente la divideva un taglio nett il terreno, sin li’ attraversato dalle morbide tonalita’ della roccia, scolorava di colpo nel giallo paglierino come dopo un confine tracciato da una mano invisibile.
Emilia non capiva piu’ niente, e il bisogno di una spiegazione si era fatto disperato.
“Lory…”, sussurro’ tremante.
Ma Lorenzo non rispose. Il volto immerso nel sudore, l’espressione percorsa da un’attonita meraviglia, guidava trasognato, come se le vicende del camper non gli appartenessero piu’. La ragazza si spavento’. Era convinta di trovarsi nel bel mezzo di un incantesimo.
“LORY DI’ QUALCOSAAA….!”.
Lui si scosse appena. Fermo’ il motore e le volse un’occhiata allucinata. Dovette schiarirsi la voce prima di riuscire a parlare.
“Emy, io…”. “Tu…?”. “Io… io qui ci sono gia’ stato”.

Io qui sono gia’ stato
“Come…?”.
“Si’…”, ribatte’ lui. “Gia’ stato”.
I due si osservarono a lungo, vittime dell’incredulita’.
“Stai scherzando…?”, sussurro’ Emilia.
Lorenzo si guardo’ ancora in giro. L’angoscia lo aveva abbandonato, lasciandolo in balia di un’inattesa sensazione di de’ja vu. Cerco’ in tutti i modi di stornarla, ma non vi riusci’: quei saliscendi giallastri e privi di vita gli riuscivano sempre piu’ familiari.
“No”, rispose. “Non scherzo affatto”.
“Che cosa facciamo, allora?”, mormoro’ lei.
“Continuiamo”, si risolse lui. “Che altro ci resta?”. Cosi’, con il cuore in gola, i due ripresero a inoltrarsi nel deserto dei misteri. Dopo qualche chilometro il sentiero si dirado’; a delimitarne il percorso non restavano che poche sterpaglie, emerse a ciuffi con inquietante regolarita’. Il terreno era livellatissimo, quasi un panno; ma la totale assenza di vento ne rendeva spettrale il colpo d’occhio, come a insinuare che da anni, forse addirittura da secoli nessuno vi mettesse piede.
“Lory…”, balbetto’ d’un tratto Emilia. “Torniamo indietro… ho paura”.
Lorenzo rallento’ e le ammicco’ con dolcezza. “Non c’e’ ragione, credimi”. Ma lei non voleva saperne.
“Scambiamoci il posto, Lory”, gli ordino’ in preda al panico. “Guido io”.
Lui fermo’ il motore ed esegui’ con calma. “Perche’?”
“Perche’ ora si va a casa”. Rimise in moto, fece l’inversione e si avvio’ a tutto gas lungo la strada gia’ percorsa. Almeno, cosi’ credeva.

Il colore della pietra
(Ci siamo, tra poco ci siamo…)
Emilia era angosciata: fissava la linea dell’orizzonte con agitazione, attendendo che la foschia restituisse alla vista le montagne del Nevada. Ormai era quasi un quarto d’ora che avevano invertito il senso… “NOOOO!!!”.
Un grido strozzato lacero’ il silenzio della cabina. La ragazza aveva capit quella strada non li avrebbe mai condotti alla meta. Perche’ non stavano affatto tornando indietro. Il panorama non aveva nulla a che spartire con la sterpaglia bruciacchiata che li aveva accompagnati prima e sulla quale adesso, a rigor di logica, avrebbero dovuto ritrovarsi. La realta’ era dunque una sola: malgrado l’inversione, il sentiero aveva proseguito per conto suo.
“AIUTOOO!!! AIU…”. Lorenzo le poggio’ una mano sulle labbra e la quieto’. “Andra’ tutto bene… lasciami il volante”. Riprese il posto di guida e scosto’ il camper sulla destra, quasi avesse avuto l’intenzione di parcheggiare. Apri’ la portiera e mise piede nel desert a poca distanza c’era un fossile. Vi si avvicino’ e lo guardo’ con grande attenzione, persino con rispetto. Era un calco. Il calco di una mano.
(Mi sta aspettando…)
Gia’. Lo aspettava. Quella mano attendeva di incontrare la sua. Lorenzo si esamino’ il palmo, e subito si accorse che le linee piu’ grandi coincidevano con quelle del fossile.
(E’ la mia…)
Poggio’ la mano sulla pietra. Un forte calore si propago’ lungo le sue braccia avvolgendogli la testa e il cuore. Si rialzo’ adagio, quasi barcollando; poi si volse a Emilia, che non aveva mai smesso di fissarlo. Costei si trascino’ lungo i sedili e usci’. Lorenzo le prese dolcemente le mani, catturandone gli occhi con uno sguardo d’amore; le accarezzo’ il collo e le guance strappandole un lieve sospiro. Poi dischiuse le labbra e le accosto’ alle sue. La notte calo’ il suo sipario sul deserto, lasciandoli soli con una nuova felicita’.

Toccato con mano…
“Arrivederci!”.
Lorenzo ed Emilia salutarono ancora perplessi lo sceriffo nel suo ufficio di Las Vegas. Si erano svegliati nel cuore della citta’, sorpresi da una pattuglia mentre dormivano abbracciati sull’orlo di un marciapiede. Di come fossero giunti li’ non ricordavano nulla: gli agenti li avevano sospettati di guida in stato di ebbrezza, ma le prove cliniche avevano escluso la presenza di alcool nel sangue di tutti e due. Un medico aveva pertanto ipotizzato un banale shock psicologico, forse una rimozione, e cio’ aveva sciolto gli ultimi dubbi. Lorenzo non era mai stato cosi’ seren incubi e inibizioni erano svaniti. Tuttavia un tarlo lo rodeva ancora. Da quanto faceva coppia con Emilia? E com’era possibile che non lo ricordasse? Decise di chiederlo alla diretta interessata, anche a rischio di una figuraccia.
“Tesoro… scusa la domanda, ma da quanto tempo stiamo insieme?”.
Emilia fece una smorfia di incredulita’ e poi scoppio’ a ridere. “Da ieri, scioccone!”.
(Ieri?)
“Tu hai avuto un cambiamento radicale, Lory”, continuo’ la ragazza, piu’ seria. “Me lo aspettavo, ma non avrei mai creduto che fosse cosi’ improvviso. Mi dici come hai fatto?”.
“Come ho fatto…?”, ripete’ Lorenzo. Parlava con un filo di voce, piu’ impegnato a inseguire i ricordi che ad ascoltare la neo-fidanzata.
“Non… non lo so”, si arrese alla fine.
“Te lo dico io, allora”, aggiunse lei. “In questa vacanza hai vissuto per la prima volta lontano dal tuo guscio. Cosi’ hai toccato con mano le tue debolezze, e hai trovato il coraggio di affrontarle e vincerle”.
Lui si accese. “Toccato con mano, hai detto?”. “Si'”.
(Toccato con mano…)
“Che c’e’?”.
“Nulla… stavo solo pensando…”
“A che cosa?”. Lorenzo si rilasso’. Poso’ per un istante gli occhi sulla compagna, sorridendole affettuoso.
“Hai ragione, sai?”.
“Lo so”, sussurro’ lei dandogli un bacio. Il discorso si interruppe qui. Un sole sfolgorante illuminava il panorama roccioso, e il verde della California accarezzava gia’ l’orizzonte. Era meglio fare silenzio. E riprendere a sognare.

I farmaci contro il “nemico dei ricordi” – il morbo di Alzheimer – hanno ottenuto finora risultati modesti.
In questo racconto, scritto da un medico, una diversa ipotesi di salvezza.

Da quando e’ entrata nella stanza, chi l’avra’ avvisata?, non si e’ mica piu’ allontanata un istante dal mio letto, il mio tesoro in camice bianco, Elena, la mia nipotina, la mia dottoressa preferita. Quanto tempo sara’ passato? Il tempo. In quale irreale maniera scorre il tempo negli ospedali? A strattoni. Interminabile, fermo per giornate intere, occhi fissi oltre i vetri della finestra sbiadita, di colpo sbotta e prende a galoppare imprevisto, istinti fatti di voci decise, passi affrettati, porte che si sbattono, e tu attendi solo che l’immobilita’ ritorni. Frammenti che ho gia’ conosciuto. Elena mi richiama al presente. “Ora ci penso io, nonna Anna, tu non ti preoccupare piu’. Ci sono qua io. Tu pensa solo a riposare, a riprenderti”. Ha tratto dalla tasca un astuccio. Due aghi color dell’ottone. Due fitte lievi, brevi, simmetriche. Ha infisso gli aghi decisa, poco sopra la piega dei miei polsi, da ambo i lati, all’interno. E a me che tergiversav “Mi pungi? Che cura e’ mai questa, Ninin?” “Lo sai, nonna, e’ la mia agopuntura. Questo e’ il quinto punto del canale del tuo Cuore. In cinese si chiama Tongli’. Tranquilla, affidati a me”, ha aggiunto poi, tenera, rassicurandomi ben oltre quanto intendesse. Il quinto punto del mio cuore, il primo, Gabriele. E’ stato cosi’ che ho capito. Ho ricordato di questa mattina, e ho capito.

Il canale del cuore
Gabriele era il mio fratellino. L’ho visto morire. Per anni in famiglia abbiamo cenato con il suo seggiolone vuoto, fianco a noi, e piatti e posate apparecchiati per lui. E certe volte lui c’era davvero. Un angioletto. Altre volte cenavamo in attesa. Gabriele e’ nato ed e’ morto sotto i miei occhi, nello stesso istante. Io ero la piu’ grandicella di quattro sorelle, le figlie del farmacista di Narni. Otto calzette basse, silenziose e invisibili in fila, spalle al muro fianco alla stanza di mamma e papa’. Gabriele sarebbe stato, e’ stato, il quinto fratellino, il primo maschietto. Il parto fu rapido. Mia mamma sdraiata soffiava e piangeva sudore mentre Gabriele vedeva la luce morendo. Anni dopo, venuto il mio turno, chiamai la mia prima figlia Gabriella. Stanotte mi sono vestita di tutto punto, in casa dormivano tutti. Ho preso la porta ben prima dell’alba, attenta a non svegliare nessuno. Ho vagato per ore su marciapiedi lastricati di ricordi, di volti e di voci, e insieme rumori ed odori, respiri del sole che stava sorgendo. Non chiedetemi dove. Poi clackson come sassate. Tutto un gran vociare d’intorno, cui io rispondevo stizzita. Il fascio di luce arancione a tratti accecava. Gridavo? Sull’ambulanza un dottore, forse un infermiere, mi ha chiesto il mio nome. “Gabriele” ho risposto decisa.
“Ma signora cara, come puo’ una donna come lei chiamarsi Gabriele, che e’ nome maschile?”, ha fatto lui provocatorio e sornione. “Che giorno e’ oggi? Dove siamo, signora?” ha aggiunto. L’interrogatorio. E al mio voltarmi verso il finestrino oppost “Un’altra pazza. Del tutto disorientata nello spazio e nel tempo. E a memoria, mi sa che siamo oltre fine riserva”. L’ho sentito biascicare qualcosa del genere rivolto a quell’altro alla guida. La sirena ne copriva la voce, ma io sorda non sono per niente. Ed e’ li, credo, che mi sono di nuovo arrabbiata. Che ne puo’ sapere, uno cosi’, un paffuto ragazzotto bianco vestito, dei nomi e dei luoghi, del tempo e dei miei ricordi? Che ne pretende sapere?

Avere memoria o essere memoria
Memoria. Noi vivi non abbiamo memoria. Noi vivi siamo memoria. Siamo memoria viva che perpetua se stessa, infaticabile, generazione dopo generazione. Cosi’ io mi chiamo Gabriele, ragazzo, Gabriele, che tu ci creda o meno. Io, ragazzo mio, non sono il mio nome, ne’ il mio indirizzo di cui davvero, ora come ora, non so proprio nulla, ne’ nulla intendo sapere. Io sono vita che vive.
Vita che perpetua la vita. Io non so che giorno sia oggi, ne’ il nome di questo rione, paese, citta’ che sia. E tu certo, ragazzotto bianco vestito, non puoi comprendere come questo non significhi niente, nulla del tutto. Altra e’ la vera memoria. E memoria, memoria vera ne ho tanta. Meglio. Io sono memoria. Ed ora vi prego, non investitemi di domande e questionari e test infallibili. A me sembrano cavolate. Cavolate che io certo non so compilare, risolvere. Lo ammetto fin d’ora, non ne sono capace. E neppure ne ho voglia. Questi sono giochini per voi, professoroni vestiti Facis, luminari inamidati con due lauree a parete.
Ma come spiegarvi che siete voi che non riuscite a capire, non io? Come spiegarvelo meglio che con questo mio serrato silenzio? Forse ora, con queste mie grida? Memoria ne ho tanta. Che credi ragazzo? Questo mio corpo, ora molle e grassoccio, conta piu’ di ottanta anni, sai?, questo mio corpo ricorda, tutto quanto. Un tempo ero una bruna cerbiatta, leggera, snella, elastica, soda, femminile, sana e sensuale. Non dovrei essere io a dirlo, certo, ma non c’e’ piu’ nessuno di allora. Sono tutti morti ormai, quelli che mi hanno conosciuto ragazza. Cosi’ lo dico io. Camminavo ad un palmo da terra nei boschi sopra il paese in cerca di mirtilli e lamponi, con Eleonora. Fu una mattina di quelle che incontrammo Antonio, il mio povero Antonio. Girava nei boschi per funghi. Altre volte l’avevamo notato. Quel giorno aveva due cesti cosi’, zeppi di neri. Anni dopo andammo sposi. Antonio ed Anna, un vero amore. Mi chiamava Nana’, e non gli ho mai chiesto perche’.

Memoria cellulare
E ho tutto in me, tengo tutto ben stretto, non ti immagini quanto, ragazzo mio. Memoria cellulare, anno fianco ad anno, volto fianco a volto. Nulla e’ andato perduto. Tutto assimilato, catalogato, trasformato in presente. Sguardi e profumi. Tutto ancora vitale, vero, reale, vivo nella mia carne, in queste mie rughe del volto. Cellula a cellula. Che credi, ragazzo? Non c’e’ piu’ nulla, nessuno, di quei tempi. Ma tutto di allora, tutti loro, respirano in me, di me. Io vivo per loro. Vivo di loro. E vivo per questa ragazza, Elena, e per la sua sorellina Rachele, una bimbetta che potrebbe anche essere tua figlia, e per i figli dei figli che ancora non hanno nome ne’ volto, ma verranno, stai certo. Verranno a questo mondo come sempre sono venuti. Vivo di loro. Per loro io sono ad un tempo nipote, figlia, moglie, madre, nonna, bisnonna. Io sono la storia. E voi smettetela, ragazzotti troppo istruiti che siete, smettetela di non fidarvi di voi stessi, di dubitare della vostra stessa mente. Che credete? Ci si ricorda di cio’ che davvero vale per noi. Ci si dimentica di cio’ che non ha vero valore. Stai pur certo che il nome di tuo figlio non lo scorderai mai. E il colore dei suoi occhi e la sua voce neppure. Ma tutte quelle sciocchezze: Ei fu, siccome immobile, dato il mortal sospiro… Fare impazzire i ragazzini col mettere a memoria sciocchezze. Non intendo qui certo criticare il poeta. Non e’ questo. E’ solo che ne ho aiutate di generazioni a ricordare versi che a loro non significavano nulla, e a me neppure. Ai poeti, forse… Ma la vita di un ragazzo e’ altrove. Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno… Ne importa assai a un ragazzo, del Manzanarre. Dopo pranzo lui freme per scappare fuori a giocare al pallone con gli altri. Imbrattarsi i pantaloni e sbucciarsi le ginocchia, questo si’ gli importa, e correre, saltare, non del Manzanarre… E poi, che si pretende? Stette la spoglia immemore…, ma la morte e la geografia non le impari certo in parole ad inchiostro. La morte te la insegna la vita, vivendola, chi altri? E la geografia che importa davvero e’ territorio vasto meno di due metri, calda topografia di valli e montagne e oceani e forme di quei sessanta chili di vita i cui occhi ora ti stanno guardando, e ti accorgi che valgono il mondo.

Sangue, non parole crociate
Memoria. Memoria e’ la vitalita’. Miliardi di cellule in attivita’ totale, sincrona e incessante. E in ognuna di esse cromosomi e milioni di geni mantengono intatto il ricordo di millenni di vita passata, e la fanno presente. Che credevi, ragazzo? ho studiato anch’io all’Universita’, Farmacia. So che scimmioni e pitecantropi vari dal passato piu’ remoto del pianeta fiatano in noi ogni istante. Vivono in noi. Questa e’ l’unica vera memoria, quella che non ha mai sbagliato, quella organica. Sangue, non le parole crociate. Quell’altra memoria lasciatela pure sbagliare, anche se, state tranquilli, sa bene quello che fa. E comunque voi annotateveli su pezzettini di carta scadenze e date improrogabili, nomi impronunciabili. Scriveteveli sui vostri calcolatori di oggi. Inutile che vi riempiate la testa di numeri e lettere. Tenetevela vuota la vostra testa, ragazzotti miei. Tenetevela cara, libera, pulita, pronta. Vi verra’ comoda un giorno. Non sciupate la vostra mente. Capa fresca, diceva mio cugino Fernando, faceva il bracciante ma quanto ad intuito… “Dai nonna, ora dillo a questo signore come ti chiami, fallo per me”. Elena mi distoglie di nuovo. Un faccione imponente mi osserva silenzioso a due palmi. E allora lo dic “Io mi chiamo Gabriele. Non insistete oltre, ragazzi. Voi non potete capire”.
Ma poi, vedendo la mia nipotina dispiacersi, come resisterle? “Va bene. Non e’ vero professore, io non mi chiamo Gabriele. Io mi chiamo Gabriella. Io sono mia figlia. Sono la madre di questo tesoro. Si e’ laureata l’altr’anno. E’ tanto brava sa? la mia Elena. Sempre stata”. “Pero’ ora fatemi un gran piacere, ragazzi. Andatevene un poco piu’ in la’ a chiacchierare. Non mi state a spazientire oltre, voi e le vostre banalita’, che io sono vecchia, stanca spossata. E questo tremore che non fa che salire… Sara’ questo caldo, questa umidita’. Ma dove siamo, qui?”. “E tu ricorda, Ninin, quel tuo quinto punto del canale del cuore funziona. Ma non si chiama Tongli’. Che nome sarebbe? Si chiama, Gabriele”.

Non che la mia vita sia un perfetto ordine, come il resto, la mia casa o il mio ufficio, ma contribuiscono al caos le decine di foglietti di appunti appesi ogniddove. Troneggia dall’alto della porta di ingresso o di uscita di casa, a seconda se si va o si viene, un foglio di notes scritto con pennarellone che ricorda “ACCENDERE SEGRETERIA O FAX”.
“Scrivi, scrivi cosi’ ti ricordi”. Queste parole ancora echeggiano nelle mie orecchie recitate dalla mamma o dalla nonna a me ancora bambina. A quei tempi era comune usanza assegnare come compito a casa l’imparare la poesia a memoria; non aveva allora troppa importanza capire il significato della celeberrima e lunghissima “cavallina storna” piuttosto del perche’ “salta il camoscio, tuona la valanga”, quanto andare alla cattedra e cantilenare, con lo sguardo fisso nel vuoto, parole che dalla mia bocca uscivano altrettanto vuote.
Poi il periodo del liceo e dell’universita’, in cui dalle pagine di libro uscivano altrettante pagine scritte a mano sul quaderno; lo stesso argomento in una prima stesura piuttosto lungo, poi nelle successive due o tre sempre piu’ didascalico fino ad un vero e proprio indice (era la sera prima dell’interrogazione o dell’esame). Quindi il breve periodo da giornalista sportiva, una classifica e una matita da cui nascevano articoli e interviste. Il registratore non mi e’ mai riuscito di usarlo.

La salvezza nella grafo-memoria
Antiche origini ha dunque quella che io definisco, e mi scuso con i professori se la terminologia non e’ scientificamente corretta, grafo-memoria. Mi sentirei perduta se con me non ci fossero mai carta e penna, nei posti e nei tempi piu’ impensati mi vengono in mente appuntamenti, problemi, osservazioni, telefonate, acquisti che se non riesco ad appuntare scivolano lontano. Appunti d’ufficio su piccoli notes quotidianamente ripresi se non evasi e ogni volta, poche peraltro, in cui le donne delle pulizie decidono di dare un colpo alla scrivania e’ un dramma, poiche’ i foglietti se ne volano sotto cartelline o si ammucchiano uno sopra l’altro e ricostruire il tutto e’ un’impresa che dura una decina di minuti. Appuntamenti riportati in almeno due posti: fogli di carta e agenda. Appunti importanti incorniciati con pennarellone per saltare agli occhi. Appunti di casa sullo scrittoio in entrata per bollette, telefonate, spesa, e in cucina, appesi sopra il frigorifero per ricordarsi cosa avevo deciso di preparare per la cena o per gli ospiti della serata. Programmi di svago e progetti di lavoro possono stare insieme sullo stesso foglio, magari l’unico trovato nel momento in cui la fantasia ha colpito alla fermata del tram.
Un esempio? – ARTICOLO PER MAFFEI PRO-MEMORIA – ARTICOLO MAFFEI MEMORIA – ART. MAFFEI – e’ stato riportato almeno una dozzina di volte nelle sue versioni sempre piu’ brevi, finche’ oggi, 7 agosto, sono riuscita a scriverlo.

Come un albero di Natale
Cosi’ la mia memoria e’ diventata una mania grafica e forse la capacita’ di ricordare, indipendentemente dalla carta, si e’ decisamente affievolita e il mio ambiente si e’ trasformato in albero di Natale, a cui, anziche’ palline colorate, stanno appesi i miei ricordi. A pensarci bene pero’ quelli piu’ intimi e segreti stanno dentro, e se un giorno decidessi di fissarli su un foglio di carta mi sorprenderei a scoprirne alcuni che pensavo dimenticati per sempre, ma forse questa e’ la vera memoria, che altro non e’ che la nostra vita. Certo non riuscirei a ricordare neanche uno di quegli appunti che oggi mi paiono essere cosi’ importanti e indispensabili.

Imparare le poesie a memoria.
Un suggerimento di Italo Calvino che va molto oltre la stretta dimensione scolastica, per avvolgere quella della vita intera.

Qualche anno fa il giornalista Alberto Sinigaglia, nel libro “Vent’anni dal Duemila”, intervisto’ alcuni illustri intellettuali sul futuro della cultura. A Italo Calvino, fra le altre, fece questa domanda: “Calvino, tre chiavi, tre talismani per il Duemila”. “Mah!” – rispose perplesso Calvino, indicando poi cosi’ il suo primo talisman “imparare delle poesie a memoria, molte poesie a memoria, da bambini, da giovani, e anche da vecchi. Le poesie fanno compagnia, uno se le ripete mentalmente e poi lo sviluppo della memoria e’ molto importante”. (Per inciso, il secondo talismano era “puntare solo alle cose difficili”, e il terzo “sapere che tutto quello che abbiamo puo’ esserci tolto da un momento all’altro”). A ogni insegnante elementare, e a molti anche degli ordini superiori, e’ capitato di sentirsi porre, da genitori volonterosi o da critici conoscenti, l’imbarazzante quesit “Perche’ non fate piu’ studiare poesie a memoria?”.
La risposta, per lo piu’, e’ lasciata alla fantasia, alla prontezza e al buon carattere dell’insegnante, che puo’ dissertare sull’inutilita’ di uno studio puramente mnemonico, sulle diverse tendenze dei nuovi programmi, sull’incongruenza di mandare a memoria brevi poesie nell’era in cui ogni computer puo’ imparare a memoria intere enciclopedie, anzi intere biblioteche, e cosi’ via. Eppure Calvino credeva il suo talismano “imparare delle poesie a memoria” valido non soltanto proprio per questo presente, ma addirittura per il Duemila, il futuro. Si sbagliava? Era in preda a uno stato d’animo romanticheggiante? Giocava a fare l’utopista? Forse, o forse no.

Da bambini, da giovani, anche da vecchi
Egli parlava infatti di imparare molte poesie “da bambini, da giovani, anche da vecchi”. Non solo, dunque, raccomandava che si imparassero poesie a memoria a scuola, da bambini, come sottintendono i ricorrenti suggerimenti all’insegnante di turno. Credo, anzi, che una buona risposta per tale insegnante, da dare al genitore o all’amico dubitoso, sarebbe: “Lei quante poesie ha imparato negli ultimi cinque anni?”. I ragazzi imparano ancora a memoria i testi di diverse canzoni, e sostengono, chissa’ se a ragione, che sono quelle le poesie di oggi. Ma pressoche’ nessun adulto impara piu’ poesie o, delle canzoni, ricorda piu’ di qualche frase. Perde molto senso far imparare a memoria ai bambini, se quest’abilita’, e il patrimonio stesso di cio’ che imparerebbero, e’ destinato ad andar perduto.

Le poesie fanno compagnia
Da giovani, poi, da adulti, e ancor piu’ da vecchi, le poesie non s’imparerebbero come da bambini, quando conta la bella musica che fanno, qualche bella parola che vi risalta, o al piu’ un’immagine che ci accendono negli occhi. Le si imparerebbe per tutte queste cose, ma anche perche’, come dice Calvino, “fanno compagnia”. Qui lo scrittore tocca una dimensione molto importante e molto studiata della memoria, e della memoria adulta: la sua virtu’ di “fare compagnia”, vincere la solitudine, aprire la comunicazione con il nostro stesso individuo, togliendoci alla prigione del presente, o con altri, tramite le parole che essi alla memoria hanno consegnato. Le parole delle poesie, poi, oltre che durature, vogliono essere belle, e consentono, nella memoria, di sentirci parte della bellezza, e “farci compagnia” con essa, appagando un bisogno prevalentemente umano. Tutto cio’ sembra un buon talismano per il Duemila.
Ma quanti di noi, e quanti uomini del Duemila, avranno il tempo, la finezza, il silenzio, per “farsi compagnia” in questo modo? Bastera’ ricominciare a imparare le poesie a scuola? E’ difficile. Calvino doveva saperlo bene se, col suo secondo talismano, c’invitava a “puntare solo alle cose difficili”, e, soprattutto, col terzo, intendeva portarci alla radice che dovrebbe darci linfa, per non rinunciare a farci compagnia con la memoria, la parola, la bellezza per altre compagnie piu’ facili: “Sapere che tutto quello che abbiamo puo’ esserci tolto da un momento all’altro. Con questo non dico mica di rinunciare a niente, anzi, godiamocelo, piu’ che mai, sapendo che da un momento all’altro tutto quello che abbiamo puo’ sparire in una nuvola di fumo”.

La mia infanzia e’ tutta un radar. E’ in una foto in bianco e ner sullo sfondo il mare della Manica, poco piu’ in la’ il porto di Le Havre e il Pan di zucchero. E io sono li’ su un muretto, tenuto da mio padre. Aveva l’eta’ che io ho adesso. Non ho mai pensato che anche lui un giorno e’ stato giovane e che quegli occhi un po’ spenti di ora un tempo brillavano di speranze. Io sono li’ tra le sue braccia, con un cappellino improbabile. E dietro di noi il radar. Mi sembra che tutta la mia infanzia felice sia racchiusa in quello scatto. La mia infanzia: a seconda delle fasi della mia vita, mi pare che abbia toni e colori differenti. Un giorno e’ spensierata e azzurra; un altro e’ faticosa e violacea; un altro ancora minacciosa e grigia. Ma e’ l’infanzia che oggi mi fa da maestra. Oggi che sono io a essere chiamato papa’ e sono altri a pensare che papa’ non e’ mai stato giovane, l’infanzia e’ il mio radar per orientarmi tra i sentimenti dei miei bambini.

Ricordo che…
Ricordo quando mia madre mi riprendeva con severita’ tenendomi musi che a me parevano eterni e, suo malgrado, mi infondeva oscuri sensi di colpa che si quietavano solo con il suo sorriso sincer oggi la mia arrabbiatura dura lo spazio di un respiro. “I sensi di colpa allontanano da Dio perche’ vengono dal diavolo”, mi ha detto un giorno un saggio. Ha ragione. Ricordo che in famiglia tutti si aspettavano che io fossi bravo e io cercavo di non deluderli: oggi prego i miei figli di essere almeno un po’ birbanti perche’ da grandi siano liberi di essere coerenti e saggi senza sentirsi frustrati. Ricordo che una volta, avevo 10 anni, mia madre mi sorprese a giocare a fidanzatini con una bambinetta. Mi fece un processo davanti alla sua mamma e io mi sentii sporco e umiliato. Voglio insegnare ai miei figli a non avere paura della loro sessualita’, a esprimere i sentimenti nei tempi e nei modi che rispettino la propria crescita e la propria consapevolezza di ragazzi. Ricordo che… Potrei andare avanti a lungo. Ma sembrerebbe un inutile processo a un’educazione sbagliata. Ho la certezza (e quale padre non l’ha?) che, comunque, i miei figli mi getteranno in faccia i miei errori. Per un solo grande errore: non averli saputo ascoltare abbastanza. Proprio quando loro si aspettavano che lo facessi e io invece dovevo scrivere questo articolo e fare la spesa al super. Eppure e’ la consapevolezza di conoscere le proprie radici e il processo di causa-effetto di certe azioni che mi fanno riflettere. La mia storia, la memoria di cio’ che sono, e’ maestra. Proprio come la Storia, quella con la S maiuscola, e’ maestra per i popoli. Un popolo senza memoria e’ destinato a sparire. Un uomo senza memoria di se’ non ha futuro. E come non ricordare che la Storia di un popolo e’ fatta delle nostre piccole e insignificanti storie.

La storia dei nonni
Molti hanno visto morire i propri nonni. Io sono uno di quelli. Ricordo con infinita tenerezza gli ultimi mesi delle mie due longeve nonne: hanno trascorso ogni attimo con me a parlarmi della loro storia, della storia della nostra famiglia, a consegnarmi i loro ricordi. Sempre la stessa storia, infinite volte. Oggi conservo in me alcune immagini indelebili di cio’ che e’ accaduto alla mia bisnonna, al mio bisnonno a inizio secolo in una Milano che e’ stata cancellata dalla fretta. E’ con la stessa tenerezza che racconto quelle storie ai miei bambini. E, lo sento, quando mostro loro le fotografie dei bisnonni e dei trisnonni, loro sentono di appartenere a qualcosa, di essere figli di una storia piu’ grande che non e’ iniziata con il giorno meraviglioso della loro nascita. Nelle immagini sbiadite di quei vecchi ci sono le immagini a colori dei miei figli. Un filo invisibile e’ passato nei decenni, e’ sopravvissuto alla guerra, ha annullato lo spazio-tempo. Si’, quando le mie nonne mi consegnavano i loro ricordi, mi hanno dato la loro eredita’ piu’ preziosa: la memoria di cio’ che erano state loro da giovani. Perche’ perfino le nonne sono state ragazze.

E’ sulla parte di memoria piu’ legata all’affettivita’ dell’uomo e delle sue emozioni, che fa leva la comunicazione. Cio’ le attribuisce una grande r’esponsabilita’ etica

E quanto restera’ di tutto questo nella Memoria? Quanto di cio’ che nasce dal lavoro di chi si occupa di comunicazione servira’ ad entrare non dico nell’Olimpo, ma almeno tra gli immortali di Francia? Le Muse, figlie di Mnemosine la Memoria, cantano un tempo fuori dal tempo, il tempo dell’umanita’ o tutt’al piu’ quello di un popolo. Non c’e’ posto nel loro canto per il tempo dell’individuo, per cio’ che ha segnato la breve vita di un uomo tra tanti, del suo quotidiano fatto di prodotti, servizi e idee: l’oggetto della comunicazione. Non e’ a quelle distaccate divinita’ che potra’ essere affidato il messaggio. La comunicazione lo sa, e fa leva su una parte di memoria che e’ legata al sentimento del vivere quotidiano, che fa breccia sull’affettivita’ dell’uomo e sulle sue emozioni. A qualcosa che, per nesso etimologico, puo’ prendere il nome di “ricordo”, che lascia segno nel cuore (cor – cordis) e che vive e muore con gli affetti e le esigenze di chi lo ha vissuto.

Ti ricordi Calimero?
Come Carosello. Non esiste un fenomeno di comunicazione, in Italia, che dopo quasi mezzo secolo sia ancora capace di cosi’ tanta forza evocativa. Ti ricordi? L’infanzia e la giovinezza di due generazioni sono racchiuse da quel sipario che si apriva con un’improbabile musichetta napoletana. Migliaia di coppie di giovani genitori lo hanno sfruttato come efficace ausilio educativo. Carosello era il premio al riposino pomeridiano dei loro bambini, che, senza quella prospettiva, avrebbero preferito mettersi immediatamente a giocare.
Carosello era un limite temporale perfino piu’ forte del naturale tramonto del sole: a letto dopo Carosello. Nella prima meta’ di quest’anno almeno tre grandi mostre hanno ripercorso le tappe della sua storia, e gli e’ stata dedicata anche una trasmissione televisiva.
Carosello era La televisione per noi bambini di allora, un argomento di riflessione per i nostri genitori. Era il mondo italiano visto attraverso gli occhi di una nuova musa (non e’ il cinema, l’ultima). Un abisso separa gli spot pubblicitari di oggi da quegli sketch ben congegnati, dai cartoni animati indimenticabili, penetrati nel ricordo con una forza molto maggiore del nome del prodotto di cui parlavano con pudore (anche per vincoli di legge). Nomi e prodotti dimenticati, spariti dal mercato o talmente cambiati da essere irriconoscibili. Non e’ questa la sede per un’analisi sociologica del fenomeno Carosello, ma certo era quanto di piu’ vicino al “sogno americano” e’ stato prodott era gran parte del “sogno italiano”. Quello, si’ che ce lo ricordiamo.

Responsabilita’ etica e sogni d’oro
Ma la comunicazione non e’ solo sogni e messaggi rassicuranti. Sa rispondere a precise esigenze, interpretare il pensiero del tempo, creare nuovi bisogni dove il bisogno non c’era, scegliere e proporre precise chiavi di lettura della realta’. Alcune chiavi invece di altre. La comunicazione sa far leva su emotivita’ latenti, sogni nascosti, insicurezze o certezze non manifeste. E cosi’ la comunicazione costruisce il ricordo e la realta’ che ne e’ oggetto non e’ piu’ la stessa. Quello della storiografia recente e’ un esempio eclatante di utilizzo della comunicazione con fini ideologici precisi. Quanti revisionismi si sono fatti largo in questi ultimi anni, alla destra e alla sinistra politica, quanti sono stati prepotentemente messi a tacere. Solo oggi si puo’ passare finalmente, senza sensi di colpa razziali, dalla parte dei Nativi d’America, anziche’ dei cow boy dal sorriso inossidabile di John Wayne.
Ognuno dei grandi totalitarismi dell’ultimo secolo ha fatto forza su una precisa strategia di comunicazione che ha raccontato e ricordato la realta’ in cui la gente viveva. E accade tuttora, perche’ la storia non e’ finita. E’ in questo che la comunicazione riesce a superare il ricordo che le e’ proprio e a costruire una nuova memoria. A costruirla, non a custodirla. La responsabilita’ etica della comunicazione e’ molto alta. Il messaggio arriva allo spirito attraverso il cuore e nello spirito l’uomo si riconosce, ritrova il filo per leggere la propria realta’ e per raccontarla alle generazioni successive. Una lettura volutamente non veritiera della realta’ puo’ costruire una memoria parallela, vendicandosi di Mnemosine e delle sue altere Figlie, e intrecciando a questa nuova memoria il ricordo, col suo fardello di gioie e risentimenti, oltraggiando il divino distacco delle Muse. Come dire che, se svincolata da un ferreo senso etico, la comunicazione sa trasformare la nostra realta’ in un piacevole e colorato Carosello. Dopo il quale andremo a letto cullandoci nel sogno.

La memoria, come accade nei film piu’ verosimili e coinvolgenti, torna all’improvviso soltanto quando – fuori di te – qualcosa o qualcuno “accende la luce” su un piccolo spazio di ricordo del tempo della tua vita. Si tratta magari di un infinitesimale frammento di discorso o parola, di immagine o colore, musica o suono, odore o profumo, sensazione o emozione, che agisce come un interruttore che illumina il ricordo della intera situazione che avevi dimenticata, te al centro di essa. Ho potuto constatare che non si riescono ad attivare i mille frammenti della propria memoria con uno sforzo di volonta’ cosciente, perche’ il ricordo viene attivato soltanto dall’esterno, anche se e’ intatto perche’ incancellabile dentro di noi. E’ necessario quindi affidarsi alla memoria degli altri, ed avere fiducia nel loro ricordo di noi e di loro stessi.
E’ questa caratteristica “pluridimensionale” della memoria che mantiene legato ognuno di noi al proprio sistema relazionale durante la vita intera: non e’ facile ritrovarsi attraverso la memoria di chi ci ha conosciuto in passato, ma e’ il percorso obbligato di una rinascita personale. Il ricordo degli avvenimenti della nostra vita, e quello che di essi ne hanno le persone che ne sono state protagoniste insieme a noi, credo sia la base della “memoria di noi stessi”: rammentando i fatti accaduti e le situazioni che si sono determinate, abbiamo infatti un riferimento oggettivo ai nostri comportamenti dell’epoca, mentre ricordando (o facendo ricordare) coloro che hanno avuto influenza su di essi, ritroviamo il ricordo di “noi stessi di allora”, che ci fa comprendere quelli che siamo oggi. E’ esperienza di tutti che un ricordo bello puo’ aiutare a vivere, perche’ aumenta la fiducia in noi stessi e nel prossimo, ci puo’ fare ritrovare o rafforzare la nostra identita’… O semplicemente “farci compagnia” quando ci sentiamo soli. Quindi: aiutiamo la memoria ad aiutarci a vivere!

La memoria e’ come un muscol si puo’ migliorare con l’allenamento.
Naturalmente, non tutti i muscoli sono uguali. E neanche i tipi di memoria.

18 agosto 1997. E’ una data che difficilmente entrera’ nella storia, ma per chi come me da molti anni si occupa di apprendimento, memoria e mnemotecniche e’ sicuramente una data importante. Infatti, il 18 agosto 1997 al Royal Festival Hall di Londra si sono inaugurate le prime Olimpiadi della mente, a cui hanno partecipato 1.300 cervelli pronti a sfidarsi in una trentina di specialita’, tra le quali ovviamente le gare mnemoniche. I concorrenti hanno dovuto misurarsi con il campione mondiale di memoria Dominic O’Brien, capace di ricordare l’ordine di un mazzo di carte in 32,8 secondi. Le altre cose da ricordare sono state numeri, nomi e visi, testi di diversi argomenti. “Ma come e’ possibile?” si chiederanno in molti. “E’ davvero cosi’ potente ed efficiente la nostra memoria?”. Molto spesso, durante una conversazione, capita di sentire qualcuno che si lamenta della sua incapacita’ di ricordare, della sua cattiva memoria. Dal manager che dimentica di fare una telefonata importante, al professionista che dimentica un appuntamento o il nome di un suo cliente, allo studente che non ricorda alcune essenziali parti del suo esame, a tutti noi che nella vita quotidiana siamo costretti a scrivere elenchi delle cose da fare o da acquistare. Quindi, sembrano essere molte le persone che possono testimoniare contro la loro stessa memoria. Purtroppo, dimenticano quanto essa sia invece efficiente e non si accorgono che ogni percezione, ogni pensiero, ogni cosa che fanno durante l’intera giornata e per tutta la vita e’ in funzione della loro memoria. In ogni momento della nostra vita la capacita’ di ritenere ci permette di compiere miracoli. Anche per leggere un testo come questo e’ necessario l’aiuto della memoria, senza la quale il testo stesso ci apparirebbe come una semplice sequenza di simboli grafici senza alcun significato.
La memoria e’ al nostro servizio sotto molteplici aspetti. E’ alla base di tutto cio’ che sappiamo su noi stessi e sul mondo. Registra, classifica, immagazzina, recupera l’informazione con una flessibilita’, una rapidita’ ed una capacita’ superiori al miglior computer. Registra le nostre esperienze sensoriali e ci permette di riconoscere una cosa gia’ vista o gia’ udita oppure un sapore, un odore, una sensazione tattile gia’ provata. Spesso diamo per scontato il fatto di ricordare e non ci rendiamo conto di quante siano le cose che ricordiamo. Tendiamo a dare peso alle dimenticanze e a sottolineare le difficolta’ che incontriamo nel ricordare alcune cose, tra le tantissime contenute nel magazzino della memoria. Eppure e’ imbarazzante, scoraggiante e talvolta irritante scoprire di aver dimenticato un nome o un avvenimento recente ed accorgersi che la memoria sta iniziando a giocarci dei brutti scherzi. Ed allora, se metaforicamente vogliamo considerare la nostra memoria come un muscolo, eccovi alcuni consigli, alcune indicazioni, alcune tecniche per allenarla e per aumentare la sua efficienza.

Le diverse modalita’ sensoriali
Prima, pero’, e’ importante sottolineare che esistono differenze sostanziali nel modo in cui ognuno di noi percepisce, apprende e ricorda. Tutti noi siamo costantemente sottoposti ad un certo numero di input esterni che raggiungono la nostra mente grazie ai cinque sensi, ma non tutti usano gli input dei cinque sensi allo stesso modo, ognuno tende ad avere uno stile di pensiero ed uno di memorizzazione legato maggiormente a questo o quell’altro senso. Come le persone differiscono nelle preferenze per i tipi di cibo o di musica, differiscono anche per la modalita’ sensoriale di accesso alle informazioni, modalita’ che condiziona il proprio profilo mnemonico. Quindi, sara’ possibile parlare di una memoria o di uno stile di apprendimento piu’ visivo, cioe’ legato alle immagini, oppure di uno piu’ auditivo, legato all’udito, o ancora di uno piu’ cinestesico, cioe’ legato al mondo delle sensazioni, tattili o corporee.

Visivi, auditivi o cinestesici?
Il soggetto visivo pensa ed elabora le idee e le decisioni per immagini, associazioni e proiezioni visive. Si serve di immagini mentali per comprendere direttive aziendali o piani complessi. Quando esiste un problema di lavoro, il suo primo impulso puo’ essere quello di ricorrere a letture per trovare una possibile soluzione o di consultare un manuale di istruzioni o del materiale d’archivi ha fiducia nel fatto che una documentazione scritta gli possa fornire indicazioni e risposte esaurienti. Ricorda con piu’ facilita’ tutto cio’ che gli viene sottoposto sotto forma di illustrazioni e grafici. Per ricordare meglio i concetti tende ad utilizzare schemi, forme geometriche e rappresentazioni simboliche, preferisce “colorare” i testi, spesso utilizzando evidenziatori diversi secondo una scala convenzionale.
Il soggetto auditivo attribuisce alle parole proprie ed altrui una notevole importanza. Ha una memoria eccezionale per poesie, messaggi pubblicitari, canzoni, che poi magari continuano a ronzargli in testa. Lavora meglio nel silenzio, o in situazioni che gli permettono di concentrarsi individualmente sui problemi. Durante una riunione la sua attenzione si concentra sulle frasi ad effetto e sull’enfasi con cui l’oratore pronuncia il suo discorso e riesce a ricordare addirittura intere frasi cosi’ come sono state dette. Apprende e ricorda con piu’ facilita’ tramite letture e ripetizioni ad alta voce e registrazioni delle lezioni o delle conferenze. Il soggetto cinestesico impara ed apprende per prove e tentativi, e’ stimolato ad apprendere facendo qualcosa, fornendo delle vere sensazioni ed emozioni al suo corpo, ha bisogno di “afferrare”, “toccare con mano” quello che studia, di sentirsi coinvolto. Per decidere rapidamente e bene necessita di essere posto davanti o, ancor meglio, dentro il problema, di viverlo in prima persona. Durante una normale conversazione con un suo collega d’ufficio, puo’ sentire l’esigenza di camminare o di aprire la posta mentre entrambi parlan camminare su e giu’ lo aiuta a riflettere sulle cose. Il movimento per lui e’ importante per mantenere “aperti” i canali di apprendimento e memorizzazione, percio’ gli e’ difficile stare seduto molto tempo ad ascoltare passivamente una lezione, una riunione o una conferenza.

Pensate a “come” ricordate
Nel leggere questi tre profili, dovreste esservi fatta un’idea sufficientemente esatta della vostra modalita’ sensoriale preferita e predominante, ma se avete ancora dei dubbi pensate a cosa ricordate con maggior facilita’ o qual e’ la situazione di apprendimento piu’ soddisfacente per voi. Per esempio, di una vacanza ricordate soprattutto i paesaggi e gli ambienti che avete visto o i discorsi ed i suoni che avete udito o piuttosto le attivita’ cui avete preso parte, i profumi e il clima?
Quando incontrate una persona, vi ricordate di piu’ la sua faccia e il suo look o il tipo di voce oppure i movimenti del corpo e la simpatia o l’antipatia? Quando cercate una via in una nuova citta’ ricorrete ad una cartina o chiedete informazioni a qualcuno su come arrivarci o vi affidate al vostro senso d’orientamento? Una volta che siete certi di quale sia la vostra modalita’ piu’ forte, dovreste cercare di utilizzarla al meglio. Se siete prevalentemente visivi cercate di esprimere le esperienze e le idee visualizzandole mediante schizzi e disegni, rappresentate le informazioni con dei grafici, chiedete esempi per meglio fissare i concetti. Se siete maggiormente auditivi fatevi spiegare nozioni nuove verbalmente, ascoltate nastri registrati, sostenete conversazioni.
Se siete in modo preponderante cinestesici inserite nel vostro processo di apprendimento il movimento fisico, confezionate le informazioni a modo vostro, concreto, pragmatico e, ove possibile, mettete in azione e sperimentate determinati concetti. Pur essendovi chiara adesso la vostra modalita’ sensoriale prevalente, per affinare le facolta’ mnemoniche e’ fondamentale far partecipare altri sensi oltre a quello per voi piu’ sviluppato, perche’ recepire informazioni anche tramite la modalita’ meno forte contribuisce ad arricchire notevolmente il ricordo e ad affrontare meglio le situazioni che richiedono l’intervento del senso piu’ debole (e’ difficile rimanere concentrati durante una riunione nella quale vengono proiettati in grandi quantita’ grafici, diagrammi e disegni, se la vostra modalita’ carente e’ quella visiva). Un apprendimento multisensoriale in cui tutte le modalita’ sono coinvolte e’ molto piu’ efficace di una memorizzazione ottenuta attivandone solo una.

Il metodo di Simonide
Eccoci ora ai suggerimenti, alle indicazioni ed alle vere e proprie mnemotecniche utili per potenziare la capacita’ di ritenzione. La prima di tali arti mnemoniche ha origine intorno al 55 a.C. e fu escogitata dal poeta greco Simonide. Pare che, come racconta Marco Tullio Cicerone nel suo De Oratore, durante un banchetto a cui Simonide fu invitato per recitare alcune poesie in onore del padrone di casa, il tetto della sala fosse crollato, provocando la morte degli ospiti ma non di Simonide, il quale, per sua fortuna, pochi attimi prima era stato chiamato fuori. Molti fra i corpi erano irriconoscibili. Come avrebbero potuto i parenti identificare gli sventurati congiunti? Simonide si accorse di riuscire a ricordare con facilita’ il punto esatto dove ognuno degli ospiti era seduto, cosicche’ pote’ identificare i corpi. Questa circostanza suggeri’ al poeta le leggi dell’arte della memoria di cui si dice sia stato l’inventore. Infatti penso’ che se la memoria visiva era cosi’ buona, poteva usarla come aiuto per ricordare anche altre cose. Escogito’ percio’ un sistema che, durante i miei corsi di tecniche di memorizzazione, viene facilmente imparato e proficuamente utilizzato secondo i propri personali obiettivi da migliaia di manager, studenti ed anziani: il sistema delle stanze. Esso consiste nel visualizzare una stanza di casa vostra (che quindi conoscete perfettamente) con tutti gli oggetti ed i mobili che la compongon ogni oggetto ed ogni mobile corrispondono ad un’immagine fissa e abituale di collegamento cui associare le cose da ricordare. Ogni volta che abbiamo bisogno di richiamare tali cose, sara’ sufficiente guardare l’oggetto o il mobile con il cosiddetto occhio della mente e automaticamente scaturiranno le informazioni che abbiamo associato.
Chiaramente, oltre ad utilizzare tutte le stanze della vostra casa, della casa dei figli, dei genitori, dei vari amici o i locali del vostro ufficio, potete anche creare la stanza o, perche’ no, la casa dei vostri sogni e riempirla di qualsiasi cosa desideriate. Facciamo un breve esempio per renderci conto di come il sistema opera con grande efficacia e facilita’. Pensate ad una stanza di casa vostra. Ora, partendo dalla porta e procedendo in ordine verso destra, visualizzate mentalmente dieci fra oggetti o mobili che vi sono all’intern ad esempio, poniamo che appena entrati, subito a destra vi sia l’impianto stereofonico, proseguendo troviamo una libreria, poi il televisore e cosi’ via. Verificate di essere in grado di passare in ordine per i dieci oggetti o mobili senza difficolta’. Supponiamo di dover ricordare di comprare dei fiori, di telefonare ad un nostro carissimo amico (decidete voi quale) e di prelevare dei soldi al bancomat.
In primo luogo, sara’ sufficiente immaginare, visualizzando mentalmente, che mentre inseriamo una cassetta nello stereo, dallo stesso escano velocemente a getto continuo grandi e piccoli fiori, di colori differenti, che emanano un intenso e delizioso profumo che pervade l’intera stanza. Successivamente, si puo’ immaginare che tutte le pagine dei libri, posti nella libreria, si trasformino in tessere del bancomat di diversa grandezza e dai libri stessi cadano fragorose cascate di monetine e banconote che cadendo sul pavimento vi coprono fino al collo. Infine, in terzo luogo, vedete che l’immagine che compare in tv e’ quella del vostro amico che, con un grosso telefono sulla testa e ad un volume cosi’ alto da rompere lo schermo rischiando di scheggiarvi, vi dice di chiamarlo al piu’ presto. Adesso sono convinto che se vi dicessi “stereo” immancabilmente mi rispondereste “fiori” e cosi’ anche per gli altri due collegamenti, ma soprattutto che con un minimo di esercizio siete perfettamente in grado di farlo da soli. Verificatelo, associando ai dieci oggetti o mobili della vostra stanza dieci cose che dovete ricordarvi di fare.

I loci ciceroniani
Un metodo simile e’ quello dei loci ciceroniani, una tecnica codificata da Cicerone, attraverso la quale egli riusciva a memorizzare una grande serie di informazioni nuove, collegando ognuna di esse ad un luogo o un elemento di un percorso perfettamente noto e stabile nei ricordi. Pensate, ad esempio, al percorso che ogni giorno fate (magari piu’ volte) per andare da casa vostra in ufficio; scoprirete con quale facilita’ sia possibile visualizzare in ordine tantissimi loci fissi, abituali del percorso stess gli incroci, i semafori, i negozi, le fermate dell’autobus e cosi’ via. La tecnica consiste nell’associare le cose da ricordare ad ogni elemento del percorso, ai loci appunto, per poter richiamare in perfetto ordine l’intera sequenza di informazioni. Inoltre, si puo’ iniziare da qualsiasi punto del percorso per andare avanti o tornare indietro.

Immaginazione, emozione, associazione
Dalla spiegazione del sistema delle stanze e dei loci comprendiamo che i principi basilari, di cui qualsiasi altra mnemotecnica ha bisogno per funzionare a dovere, son
1) utilizzare l’immaginazione;
2) generare emozioni (con l’aiuto della fantasia e della creativita’);
3) formare associazioni.
Ogni mnemotecnica ha bisogno di attivare i nostri cinque sensi e specialmente l’immaginazione visiva. Pensate ad esempio come potrebbe essere molto piu’ facile ricordare una materia come la storia se fosse possibile vedere le immagini delle battaglie, sentire le voci dei personaggi o toccare con mano le prove lasciate ai posteri. Utilizzare tutti i sensi nella vostra immagine mnemonica non e’ pero’ sufficiente se insieme non vi e’ creazione di emozioni: tanto piu’ ridicole, assurde, fantasiose, esagerate, paradossali, grottesche, bizzarre, buffe, in movimento, colorate, saranno le vostre immagini mentali, tanto piu’ saranno in grado di generare un’emozione che riuscira’ a rafforzare la durata del ricordo. E’ fondamentale che all’immaginazione ed alla formazione di emozioni sia abbinata la capacita’ di associazione. Infatti, associare nel modo piu’ creativo possibile qualsiasi informazione nuova a qualche elemento gia’ fissato e presente solidamente nella nostra memoria permette di migliorarne notevolmente il rendimento come avrete notato nelle tecniche delle stanze e dei loci.
Quando si parla di immaginazione mentale e’ quasi d’obbligo accennare al mnemonista russo Seresevskij, sul quale lo psicologo russo A.R. Luria, che ne studio’ il caso, scrisse un affascinante libro (Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, Armando, Roma 1979). Le capacita’ straordinarie di Seresevskij, che era un giornalista, furono scoperte quando si noto’ che, per quanto fossero complessi i discorsi, le riunioni editoriali, le conferenze, i compiti che gli venivano impartiti, egli non prendeva mai appunti, ma era in grado di ripetere tutto cio’ che era stato detto parola per parola, cosa oltre tutto che egli dava per scontata. Luria lo sottopose per diversi anni a prove ed esperimenti mnemonici, ma sembrava che non ci fosse limite alla quantita’ di informazioni che egli era in grado di imparare a memoria: numeri di centinaia di cifre, formule scientifiche elaborate, lingue sconosciute o parole senza senso. Oltre a ripetere perfettamente tutto questo materiale, egli era anche in grado di richiamarlo con facilita’ anche dopo anni. Il suo segreto? Egli riusciva a creare rapidamente un’enorme ricchezza di immagini visive ed aveva inoltre una grande capacita’ sinestetica, ossia la capacita’ che ha uno stimolo in una modalita’ sensoriale di evocare un’immagine in un’altra modalita’ sensoriale (per esempio l’associazione suoni bassi con colori scuri).
Questa notevole tendenza di una modalita’ sensoriale a diffondersi in un’altra, l’abilita’ di creare un’esperienza vivida anche dal materiale piu’ arido e banale, il tutto integrato con un certo numero di tecniche mnemoniche, fra cui quella di immaginare oggetti situati lungo una strada a lui familiare e quella di inventare storie per collegarli insieme, erano sicuramente molto vantaggiosi, ma presentavano anche dei problemi. L’ipermnesia gli creava grosse difficolta’ nel dimenticare, per cui la sua memoria era sempre piena di informazioni che egli non voleva ricordare. La soluzione fu di immaginare una lavagna sulla quale scrivere e poi cancellare le informazioni: si dice che questo metodo funziono’ benissimo.

Invecchiamento e memoria
E’ luogo comune che il declino mentale sia parte inevitabile e naturale dell’invecchiamento, come dimostrano alcuni interessanti risultati ottenuti da diverse indagini. Anzi, diversi nuovi dati dimostrano che il 20-30 per cento degli ottantenni ottiene risultati analoghi, se non superiori, a quelli di persone molto piu’ giovani. D’altra parte, basti pensare come la Storia e’ piena di scienziati, studiosi, personaggi politici e artisti che hanno conservato un’ottima salute mentale anche molto avanti con gli anni. Ed allora sotto con un po’ di jogging, di training della mente, perche’ la memoria si puo’ migliorare a qualsiasi eta’, anche senza chiamarsi Picasso, Tolstoj o Churchill.

“Povero Uomo bianco, nella tua frenesia, nei tuoi ornamenti, nella tua agiatezza hai smarrito il tuo retaggio. Ora vuoi il mio! Ecco, prendilo! Io ne ho ancora”.
J.Twobirds Arbuckle

Nel dicembre 1995 l’Istituto Astra di Milano, specializzato in ricerche di marketing, ha realizzato per conto dell’AIPE (Associazione Italiana Piccoli Editori) una ricerca qualitativa sulle motivazioni della non lettura di libri in Italia. Obiettivo della ricerca era quello di evidenziare la percezione che ha dei libri e della lettura “un’area di giovani adulti e di adulti dotati di un livello medio di scolarita’, sicuramente in grado di leggere senza difficolta’, esterni alla classe inferiore e alle fasce di eta’ piu’ elevate”.
Il non-lettore si giustificava dicendo di avere poco tempo per leggere, o che la lettura e’ una fatica sgradevole, non rilassante e che aggrava il problema dello stress. La lettura di libri viene vissuta come solitudine negativa o come assenza di rapporti umani caldi; i bisogni di informazione sono meglio soddisfatti da tv, radio e giornali, in quanto il libro impone tempi lunghi ed e’ “vecchio” e rende vecchi proprio perche’ e’ lento. Il libro quindi come emblema della non modernita’ “connotata, all’opposto, dal rapido succedersi di moduli brevi e semplici che si succedono in ritmo battente”.
“La contrapposizione – continua la ricerca – e’ tra il vivere contemporaneo (“moderno”) con molte delle sue attivita’ gratificanti, la cui cifra stilistica e’ data dalla velocita’ di consumo/fruizione… e la lettura di libri che dalla modernita’ si allontana”. Le conclusioni della ricerca e i conseguenti antidoti da attivare meritano di essere citati per estes “la non lettura di libri e’ ormai per molti non il frutto di una costrizione ma d’una scelta. Solo modificando tale immagine sociale, solo ridando positivita’ condivisa e motivante al leggere libri, solo riattribuendogli valori di piacere e di utilita’, solo ricreandone e creandone la moda e il bisogno sara’ possibile incidere significativamente sulla vasta (e oggi a volte orgogliosa) area dei non-lettori di libri”. Lo scenario allarmante, messo crudamente in evidenza dai risultati ai quali e’ giunta questa ricerca, andrebbe completato e comparato con i dati positivi, in termini di espansione di mercato e quindi di fatturato dell’industria informatica. All’incremento della “memoria artificiale” sembra corrispondere una diminuzione della memoria individuale e collettiva e, con l’estinguersi delle consuete forme di apprendimento, mutano radicalmente anche i contenuti e le identificazioni culturali di riferimento, triturati e digeriti ora sapientemente dalla macchina computer e forniti precotti e omogeneizzati al cittadino-utente-bambino. Si chiudono le energie vitali intorno e al di sopra dell’uomo. La memoria, piattaforma stabile sulla quale l’uomo ha sempre ancorato se stesso, e dalla quale si e’ sempre lanciato per esprimere le sue originarie creativita’, sembra rinchiusa in una macchina. La memoria, fardello forse troppo pesante per l’uomo di oggi che, per muoversi piu’ velocemente, doveva alleggerirsi della sua parte piu’ densa: se stesso.

Essere e funzione
Ma non sol il nesso tra memoria e cultura e’ tanto piu’ evidente quando si risalga alle radici originarie di questa, alla memoria/cultura piu’ profonda e vissuta, tanto che fosse scritta quanto che non lo fosse. Il vero conflitto evidenziato dalla ricerca citata e’, a mio parere, tra un mondo in cui la cultura e’ definita principalmente dalla memoria (il mondo della Tradizione) e il mondo moderno connotato, invece, da un’accezione immediatamente funzionale del sapere, indipendente da un autentico approfondimento della conoscenza della propria interiorita’. Della memoria di se stessi e del proprio mondo di appartenenza. Contro quest’ultima direzione sembra muoversi anche la riforma scolastica, oggetto di recenti discussioni.
A un’apparente semplificazione del ciclo di studi corrisponde, in realta’, un appiattimento dei programmi che riflettono una decisa tendenza alla funzionalita’ nel senso piu’ materiale del termine. A conferma di cio’, sulle orme di Clinton e di Gates, il nostro Ministro della Pubblica Istruzione prevede di spendere mille miliardi di lire in quattro anni per l’informatizzazione delle scuole. Tuttavia, persino negli Stati Uniti – a quanto sembra, nostro punto di riferimento in materia di cultura e tendenze – c’e’ chi ha verificato che l’uso delle nuove tecnologie non garantisce un progresso significativo dell’insegnamento e dell’apprendimento (Todd Oppenheimer, su Atlantic Monthly, una delle piu’ autorevoli riviste dell’area liberal che nello strillo di copertina di un numero estivo grida alla “Computer delusion”). In breve, se e’ vero che la tecnologia modella il nostro pensiero, cosi’ come il pensiero modella la tecnologia, e’ ancor piu’ importante che si rafforzino le radici della nostra memoria, affinche’ questa riesca a modellare i contenuti che sono molto piu’ importanti degli strumenti con i quali vengono rappresentati. Infatti, lungi dall’essere tentati da ire luddiste, e’ opportuno sottolineare che, oggi piu’ che mai, la materia prima di cui abbiamo bisogno sono il software, inteso come il sapere, le idee, il know how in senso lato; ne sara’ esaltata la capacita’ stessa dell’uomo di informarsi e di conoscere. Per non restare indietro non basta piu’ investire in hardware, bisogna investire innanzitutto in conoscenza.

I volti di pietra
A questo proposito se giustificato sembra essere il ricorso all’aiuto americano in ambito tecnologico, fuorviante se non addirittura deleterio e’ farne un modello culturale da imitare tout court. Gli Stati Uniti d’America sono ed erano la meta di chi, autosradicandosi, cerca in questo stato una terra vergine nella quale operare seguendo prevalentemente la legge dell’affermazione economica (il mito della frontiera e del self-made man). Non e’ un caso che l’unica grande epopea che viene raccontata con orgoglio dall’uomo medio americano, come un mito fondante di questo paese, sia la guerra di sterminio condotta vittoriosamente contro i Nativi, i Pellerossa. A poco valgono, in questo momento, le lacrime di coccodrillo versate con Hollywoodiana maestria. Fino a qualche tempo fa al Museum of Natural History di Manhattan, la sezione dedicata agli Indiani d’America seguiva direttamente le sale con le vetrine sui primati, e dai gorilla e scimpanze’ si entrava nell’ala dedicata ai Sioux e ai Cheyenne. I volti dei piu’ rappresentativi presidenti degli Stati Uniti, scolpiti nella roccia del monte Rushmore, la vetta piu’ alta delle Colline Nere sacre agli Indiani, non sono una creazione scultorea fine a se stessa: in realta’ essi vogliono perpetuare il ricordo della vittoria dei bianchi sui Pellerossa. e’ da questo popolo, dal Popolo Rosso, che noi, invece, semmai, dobbiamo prendere esempio per capire come possiamo riappropriarci della nostra memoria. Il valore di testimonianza e di sacrificio da loro incarnato sta nel fatto di non avere difeso solo la propria terra ma, soprattutto, le proprie tradizioni.
Merita di essere citato, a questo proposito, Francesco Alberoni, che sul Corriere della Sera del 18 agosto scorso, ricordava che: “nell’immenso mercato mondiale, dove dominano poteri lontani e colossi della comunicazione, i popoli sembrano sparire, la cultura, la musica, le innovazioni tecnologiche, perfino le religioni, ci arrivano dall’esterno… Tutto sembra possibile e tutto arbitrario… La maggior parte degli studenti che arriva all’universita’ non sa piu’ nulla di storia e filosofia. Non ha piu’ alcun rapporto con la tradizione religiosa e classica. Ma un popolo che perde la sua identita’ e la sua tradizione culturale si disintegra, svanisce. Come sono svaniti tutti i popoli occidentali antichi… Gli esseri umani hanno bisogno di una comunita’ in cui vivere, di radici, di una tradizione a cui ispirarsi. Hanno bisogno di sforzarsi, di spendersi, di lottare…”. Va messo in evidenza che una delle principali applicazioni della memoria e’, paradossalmente, aiutare a ricordare quello che interessa perche’ il mondo dei ricordi non e’ altro che quello della stessa personalita’, orientata molto concretamente verso le proprie esigenze di vita e di azione. Questa accezione esclusivamente funzionale della memoria non concede altri ricordi che non siano quelli strettamente legati allo stile di vita che si conduce, nei vari periodi. La crescita spirituale e intellettuale di un popolo impone, quindi, un salto ulteriore: aprire la memoria anche a esperienze indirette, alle proprie radici, al passato. Nella societa’ futura chiunque di noi potra’ accedere a prodotti e servizi diversificati, costruire un proprio universo virtuale e allo stesso tempo raccogliere frammenti del mondo di tutti e ricostruirlo secondo le proprie esigenze.
Proprio per questo le nuove frontiere del pensiero devono essere sorrette da un sicuro rapporto col passato e anche da una piu’ serena capacita’ di lettura interiore, cosa che i libri per esempio consentono in modo eminente. Due civilta’, due modi di sentire e di apprendere si stanno fronteggiando. Il nostro compito, oggi e’ far si’ che le luci dell’una si irradino felicemente anche sull’altra, ben sapendo che, come dice Holderlin: “Le ondate del cuore non schiumerebbero cosi’ in alto e non diventerebbero spirito, se l’alto, muto scoglio, il destino, non si parasse loro contro”.

Fate anche voi come Andrea Tosett scrivete i vostri pensieri a ruota libera a: “Comunico” – La palestra dei lettori, via Breno 1 – 20139 Milano, o inviate un fax al numero 02 55210265

Il sorriso dolce di mia madre che mi passava la mano nei capelli per addormentarmi quando, da bambino, ero sempre irrequieto o in ansia per la scuola; il sapore ineguagliato di quel pezzo di Buondi’ offertomi dalla ragazzina dai capelli castani e dai meravigliosi occhi neri, non mi ricordo piu’ il suo nome, con un sorriso che allora era per me il piu’ dolce del mond forse il sorriso, forse il Buondi’, furono il piu’ bel ricordo della scuola elementare.
Le vacanze nella quiete malinconica del Lido di Venezia dalla zia Antonia e dallo zio Renato, tappezziere all’aeroporto di Tessera, il sorso di spriz assaggiato al Bacaro dal suo bicchiere, che ormai ti ze un omo… li’ forse ho cominciato ad amare il prosecco. Gli occhi sgranati davanti a un mare cosi’ grande, maestoso e terribile insieme. Gli alberghi di lusso con tante luci accese nella sera, musiche ovattate, donne meravigliose, profumate, con abiti leggeri, lucidi e fruscianti, labbra rosse, tacchi alti. Stavo seduto sul muretto a guardare fra mille pensieri che si accavallavano nella mente. Ho amato Venezia fin da bambino, l’ho amata come una persona, mio zio mi ci faceva camminare per ore, ti vedi questo ze el Casino’, i se zoga fortune in sti muri, e nella mia mente di bambino mi rappresentavo maragia’ e splendori orientali.
Venezia… ancora oggi dopo tanto tempo, quanto tempo? sento un groppo alla gola quando torno da Bentigodi per folpi e prosecco e il tempo e’ fermo, inchiodato al tavolo di legno davanti alla finestrella che da’ sull’orto con la lattuga e le tegoline imbrocade. E la siora Delaide “che bel omo che jera el so zio” e le luccicano gli occhi. Ricordi, immagini, diapositive di vita a volte difficilmente ricollocabili nelle loro giuste caselle temporali. Il sapore acre della prima sigaretta, forse era una Giubek che si potevano comprare anche sciolte; quella Stucchi desiderata tanto e finalmente mia, con la sella di cuoio e il manubrio dritto che mi obbligava a stare gobbo sulla sella. Divento’ ancora piu’ bella dopo che Angela, la figlia del capostazione, mi disse: e’ celeste come i tuoi occhi! Divento’ destriero, moto da corsa, aereo a reazione, compagna insostituibile di ogni avventura di quattordicenne. E gia’ dall’anno successivo mi porto’ ogni mattina al lavoro, da Arcore a Monza e poi alla scuola serale prima di tornare di nuovo a casa, anche sotto la pioggia, maledetta pioggia!
Quel pomeriggio di sabato dopo la partita di calcio fra i ragazzi del mio rione contro quelli di San Biagio, corsi a prenderla e per molti minuti non smisi di guardare il palo della luce dove l’avevo lasciata. Ero arrivato per ultimo e l’avevo messa sopra tutte le altre, senza legarla perche’ dal campo gia’ mi chiamavan muoviti che cominciamo. L’angoscia, la rabbia, lo sconforto. Perche’ proprio la mia? Chi e’ stato, dove l’ha portata? Ricordati di mettere la catena, mi diceva mio padre, non fidarti mai! Non riuscivo a crederci, guardavo i ragazzi muti. Tiratela fuori, non fate i pirla e loro non ridevano, era proprio sparita e con lei il mio sorriso, ci penso ancora adesso. Piu’ tardi, molto piu’ tardi, arrivo’ la cinquecento, bianca, usata, ma ancora decente. Pagarla a rate era una preoccupazione e se non riuscissi a saldare una scadenza? Decisi di non affezionarmi troppo, non si sa mai. E finalmente il diploma! Mi sentivo importante, gia’ pensavo alla targa da mettere sul muro del mio futuro ufficio in centro, Geometra, mi pareva che la gente mi guardasse e dicesse: lo vedi quello li e’ un geometra di quelli veri cunt ul diploma, no un capomaster che fa i dane’ su i spal dei por manoval.
Poi mi sono lasciato scaldare la testa con l’Universita’: architettura. Volevo portare avanti il discorso di Le Corbusier, il tutto percorribile, la citta’ giardino, la misura umana come metro. Qull’estate a Iesolo, durante una serata eccezionale e tanto attesa, Lola Falana, la venere nera dei sogni di tutti i ragazzi, ballava e cantava a qualche metro da me, poi mi tese la mano con un sorriso per invitarmi a ballare con lei. Gola secca, ginocchia molli, cuore in gola, gia’ innamorato di lei vedendola in televisione, quella sera ballando le avrei regalato la cinquecento ed anche la mamma pur di stare con lei tutta la vita. Quando mi disse tenchiu’ con le labbra a cuore, giuro, pensavo di svenire e, in un secondo, mi sono balenate nella testa un milione di frasi ad effetto adatte al momento e invece? Niente, solo un sorriso scemo col labbro tremulo. Ma da quel momento l’indice di gradimento in campo femminile aumento’ in modo considerevole. Che strane le ragazze! Si accorgevano di me solo ora e perche’ avevo ballato con un’altra donna, ma che donna! In quei tempi bastavano un fuoco sulla spiaggia ed una chitarra per passare una notte memorabile tra vino rosso e canzoni dei Beatles. Non portando eskimo e jeans, all’Universita’, frequentata con permessi di lavoro e nei giorni rubati alle ferie, venivo guardato con sospetto dalla destra e dalla sinistra. Le due parti ideologiche non riuscivano a collocarmi politicamente.
Ma presto le incertezze di quegli anni in cui tutto veniva messo in discussione mi costrinsero a interrompere l’Universita’, con stizza, con amarezza, senza poter far nulla per cambiare la decisione di quei giorni. E venne, infine, la pubblicita’. Prima consulenze episodiche, poi il chiodo fisso di uno studio di creativita’, portare le teorie di Le Corbusier nella grafica pubblicitaria, i folder a lettura totale, i cataloghi a doppia copertina, il terrore negli occhi dei tipografi quando guardavano i miei menabo’. E ancora i congressi internazionali sulle acque termali, le campagne per Mionetto, si’ proprio quello del prosecco, antico amore, poi le grappe, il design delle bottiglie, le scatole, le etichette, le presentazioni e tutto il resto con un giovane giornalista, copywriter e pierre: Claudio Maffei. E quindi un’agenzia tutta mia, il consenso dei clienti, la comunicazione integrata che, detta cosi’ sembra una cosa incredibile mentre in realta’ e’ l’uovo di colombo per la comunicazione di domani. Gli eventi aggregativi sempre piu’ importanti, sempre piu’ impegnativi, ma quanto tempo rimane per vivere se il lavoro assorbe tutte le ore della giornata? e’ solo un pensiero veloce mentre si presentano altre sfide, un nuovo cliente, un’altra grande convention e l’entusiasmo di porsi continuamente in discussione.
Vinitaly, Bias, Smau, le grandi fiere in giro per l’Italia, sempre con qualcosa di nuovo, sempre con qualche idea sulla quale puntare. Verona, Valdobbiadene, Trieste. Trieste, credevo che dopo tanto non sarebbe piu’ successo di perdere la testa per una citta’. Proprio la’ in alto, ad est, dove sorge il sole. Ma quale sole, il mio sole. Ho creduto che il mio sole sorgesse in ogni posto dove ho sentito battere forte il cuore, nel sorriso di quella bionda mula istriana che mi ha preso anche l’anima con la sua energica fragilita’ slava, la sua femminilita’ di altri tempi, di altra cultura di altri luoghi che mi ha fatto sentire eroe e poeta e che mi ha insegnato ad amare l’aroma pungente del vento di mare sul molo Audace, la Busara, il Terrano. Si mi sono innamorato di Trieste, perdutamente, da svegliarmi al mattino e credere sempre di esserci. Forse e’ davvero il mio sole e non me ne sono accorto. Torna sempre la memoria e… dopo… insegna.

In un numero dedicato alla memoria mi sembrava coerente scrivere di un episodio della mia vita che mi fosse particolarmente rimasto dentro. E’ cominciato cosi’ il mio solito lungo processo di gestazione, quando devo fare un articolo, che mi porta poi a una stesura veloce. Vagliavo un ricordo, poi un altro e poi altri ancora. Nessuno mi andava bene. Anzi nessuno ritenevo potesse andare bene ai lettori. Per ciascuno mi chiedev “Ma a chi puo’ interessare? Ma a chi legge cosa gliene importa?” E cosi’ sono arrivato a una considerazione: non scrivero’ niente che riguardi miei ricordi. La memoria e’ una cosa molto, ma molto personale. La mia memoria e’ mia. A sostegno di questa decisione ho ripensato alle mille volte in cui mi sono trovato a conversare. Quando qualcuno attacca la storia del “mi ricordo” fa scattare in tutti una sorta di ansia e irrequietezza alla ricerca di qualche cosa di analogo o di piu’ interessante da poter a sua volta raccontare alla fine. Anzi magari interrompendo, perche’ la sua storia e’ certo piu’ bella (come quando qualcuno racconta barzellette. C’e’ sempre chi interviene: “A proposit la sai quella…?”).

I dopocena dei filmini
Tutti abbiamo subito i dopo cena dei filmini, delle diapositive, degli album fotografici. E tutti sappiamo cosa vuol dire non poter entrare nella memoria degli altri. I padroni di casa beati nei ricordi che le immagini evocavano, gli ospiti alla ricerca di una qualsiasi scusa per poter fuggire quello spettacolo da cui necessariamente erano esclusi. Perche’ la memoria e’ una cosa personale. La mia memoria e’ mia. L’unico momento in cui ci possiamo dimostrare interessati alla memoria degli altri e’ quando coinvolge anche noi. Incontriamo un vecchio compagno di scuola e dopo i tradizionali “non sei cambiato per niente”, mentre dentro di noi pensiamo “caspita com’e’ invecchiato” (facendoci solo sfiorare dal dubbio che lui stia pensando lo stesso per noi), iniziamo con i “ti ricordi”. E tutto va bene fino a che ci sono delle memorie comuni. Fin quando la sua memoria coincide con la mia memoria. Finito questo ripasso cala il gelo. Non si sa piu’ cosa dire. Ci si saluta frettolosamente. Si esorta con convinzione: “Fatti vedere qualche volta. Telefonami, mi fara’ piacere”. Ben sapendo di mentire. L’unica parte di un filmino che ci interessa e’ quella dove c’eravamo anche noi e stiamo tesi nella ricerca della nostra immagine. La cronaca su un giornale di un avvenimento che abbiamo vissuto ci trova alla caccia di un cenno che ci ha visto coinvolti direttamente. Il libro che leggiamo ci piace piu’ o meno, al di la’ della capacita’ letteraria dell’autore, a seconda se il suo racconto entra in qualche modo nei percorsi della nostra memoria. Ma sono veramente pochi coloro che trasferendoci i loro ricordi ci coinvolgono. Perche’ per tutti vale la stessa legge: la mia memoria e’ mia.

Quando clicco sui quei file
E quanto e’ importante la mia memoria per me. Quanto, piccoli segnali o piccole situazioni esterne captate da un qualche sensore (un odore, un rumore, un colore, un sapore, una sensazione tattile) sanno far scatenare processi di affioramento di ricordi. E’ come se il mouse cliccasse su un vecchio file e improvvisamente facesse illuminare lo schermo di dati e notizie e sentimenti. Ma solo io devo manovrare questo mouse e questo schermo devo osservarlo solo io. E io solo accedere a questo file che e’ la memoria. Perche’ la mia memoria e’ mia. Sfollati a Rapall i camion degli alleati per le strade che regalavano il ciuingam a noi bambini (ricordo vero o ricordo di un racconto?), la scuola elementare in cui ero il piu’ bravo della classe (e il piu’ mingherlino) dove barattavo con quelli piu’ grossi compiti da copiare con protezione, i giochi nei campi con mio fratello e le bande degli amici (il tepore delle serate estive), i carnevali mascherati da zorro o da caoboi, la Messa a mezzogiorno la domenica tutti insieme (papa’, mamma, sorella, fratello, io e la Tatta) al solito posto in Basilica, la televisione al bar. La casa nuova. Le scuole medie, le corse per non entrare in ritardo a lezione, la villeggiatura in collina. Il ginnasio nella citta’ vicina, le corse per prendere il treno, la prima insufficienza sulla pagella, le compagne di scuola, le festicciole (on-li-u’, lav letter on de sand, il roc). Il liceo, i furori delle discussioni sulla filosofia e sulla religione, le cotterelle, la Vespa (oh la felicita’ della Vespa), i compiti con gli amici, l’esame di maturita’ (il piu’ grosso impegno della mia vita).
I meravigliosi anni sessanta. Meravigliosi perche’ avevo vent’anni. Il matrimonio di mia sorella, la scelta della facolta’ e l’iscrizione a ingegneria, le prime collaborazioni con i giornali, le ragazze, le feste, le estati, il rientrare la sera tardi (“questa casa non e’ un albergo”), le passeggiate sul lungomare a discutere di tutto, le serate ad accompagnarsi a vicenda l’uno a casa dell’altro, con l’amico (quello vero), per non interrompere la discussione, la musica, i nipoti, la laurea di mio fratello, gli innamoramenti, la macchina, lo stage in Polonia, l’incontro con lei, la laurea, il lavoro a Milano, il matrimonio.
La casa a Milano, il matrimonio di mio fratello, la carriera in IBM, la prima figlia (suonava la canzone di Padre Brown, uno sceneggiato con Rascel, mentre camminavo nel corridoio della clinica – allora non usava far entrare il padre in sala parto – in attesa), il secondo figlio, le vacanze e i viaggi, l’asilo, le cene con gli amici. E poi via via un ritmo sempre piu’ veloce. Le scuole, il lavoro, il riavvicinamento allo scrivere sui giornali, scrivere libri. La casa nuova. La morte di papa’ (mi e’ rimasto forte il profumo dei pitosfori attorno all’ospedale, quella notte. Ciao papa’). Le nuove scuole, i viaggi, i vari lavori in IBM, i figli che vivono, forse, le stesse tappe e gli stessi percorsi che ho vissuto io badando bene a non intervenire se non per suggerire. E via, ancora piu’ veloce. La morte di mamma (l’autostrada che mi vola sotto nella notte su un cuscino di buio e di lacrime, sapendo che non sarei arrivato a tempo. Ciao mamma). Le cose che oggi si ripresentano nei figli con una sorta di deja vu. “Non tornare tardi” e l’attesa di quel benedetto rumore della chiave nella toppa (adesso – “un giorno capirai” – si’ che capisco). E’ normale che sia cosi’…

Questo e’ il file della mia memoria. Che e’ mia. E solo mia. E che certamente non puo’ interessare a nessun altro. O, al massimo solo a chi ci puo’ ritrovare esperienze analoghe, magari dimenticate, e quasi sfuocate nella sua memoria. Che rischiavano di andare perdute. Ma allora perche’ scriverne? Vero e’ ben, Pindemonte.