per una nuova cultura della comunicazione

Comunico - Numero 3

Scrivere. Una fatica nera

Si dice che il buon oratore non sia un valido scrittore e viceversa. Io non faccio eccezione. Dotato di buon eloquio, non so scrivere bene. Nonostante cio’, continuo a farl per lavoro, per diletto, per comunicare con gli altri. L’ho sempre fatto. Ho pero’ una certezza, quella di essere in buona compagnia.
Milioni e milioni di italiani che lavorano ogni giorno negli uffici, nelle scuole e, purtroppo, perfino nei giornali, non sanno scrivere. Tralasciamo le facili ironie sul burocratese tipico della pubblica amministrazione, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa (comunque non capiro’ mai perche’ devo firmare in calce e non in fondo alla pagina, porre in essere e non fare, opporre diniego e non rifiutare). Quello che trovo osceno sono, per esempio, gli innumerevoli participi presenti quali: avente per oggetto, riguardante il, le leggi vigenti, lo scrivente, il dichiarante. E poi, perche’ i biglietti del tram si obliterano? E’ una parola che si usa solo sul tram, e perche’ se in casa manca l’acqua c’e’ un’interruzione del flusso idrico?
Noi di Comunico abbiamo pensato di organizzare corsi di comunicazione scritta. Infatti i modelli di scrittura appresi a scuola non sono adatti alla comunicazione aziendale. A scuola si scrive per dimostrare di aver accumulato cultura e, per questo, vengono maggiormente apprezzati i periodi forbiti e complessi. Nel lavoro, invece, si scrive per comunicare agli altri, per convincere qualcuno a pensare o a fare qualcosa, quindi e’ essenziale essere chiari, senza per questo scivolare nel banale o nel troppo facile. Acquisire le tecniche per produrre una migliore comunicazione scritta, dovrebbe essere desiderio di chiunque, per raccogliere quella sfida di qualita’, di efficienza che i tempi attuali ci richiedono. Le regole fondamentali sono poche: frasi brevi, evitare i verbi passivi e il discorso indiretto, sostituire i termini tecnici con frasi semplici e comprensibili. Insomma, gli strumenti ci sono tutti, non ci resta che utilizzarli!

Per farsi ascoltare, o ancora, prima, per ascoltarsi; per riempire il vuoto, per tenersi compagnia, per conoscersi, per svelare agli altri e a se’ la propria identita’

E’ una scena, nel bellissimo film “Viaggio in Inghilterra” di Richard Attenborough, con Antony Hopkins e Debra Winger, nella quale il protagonista, insegnante di letteratura in un college inglese, va a visitare un suo studente con il quale ha avuto un diverbio e lo trova nella sua camera immerso nella lettura. Proprio lui, che si addormentava alle sue lezioni. Ne nasce una conversazione breve ma intensa sulle motivazioni che spingono alla lettura. “Perche’ si legge” e’ l’interrogativo che i due uomini si pongono stando in piedi in un profondo imbarazzo sull’uscio della stanza. e’ il ragazzo a rispondere, citando una frase di suo padre, anch’egli insegnante: si legge per sentirsi meno soli.
Ecco, io credo che questa potrebbe essere una buona risposta anche per la stessa domanda riguardo alla scrittura. Scrivere aiuta certamente a sentirsi meno soli; la scrittura e’ un processo evocativo. Una risposta forse un po’ poetica, ma non per questo meno vera. Fin dall’inizio della civilta’, l’uomo ha affidato alla scrittura ben piu’ che compiti di servizio, ha affidato alla scrittura significati di racconto di se stesso, un modo per lasciare testimonianza. Quello della scrittura e’ infatti uno dei modi piu’ sicuri per trasmettere la cultura attraverso le generazioni; la parola scritta e’ autorevole e non si cancella facilmente. A Mose’ i comandamenti della legge di Dio non vennero solo raccontati, ma trascritti sulle tavole, perche’ queste venissero mostrate al popolo. La parola di Dio e’ la parola scritta.

Costruire la parola scritta
La scrittura richiede pero’ acculturazione, o meglio – si dice – un grado superiore di acculturazione rispetto al parlare, tanto e’ vero che prima si impara a parlare, grazie a un processo di imitazione, e poi si impara a leggere e a scrivere, attraverso un processo di disaggregazione della parola. Percio’ il processo della scrittura e’ un processo costruito, mentre quello del parlare e’ un processo spontaneo.
Come tutte le costruzioni, anche la scrittura richiede una certa dose di fatica. Non che parlare non sia faticos tutta la comunicazione e’ faticosa, perche’ attraverso la comunicazione ci si mette costantemente in gioco, con se stessi e con gli altri. Scegliere di comunicare o farlo inconsapevolmente puo’ essere di grande utilita’ sia nel lavoro sia nella vita: si tratta di imparare a migliorare il proprio modo di comunicare e questo vale anche per la scrittura.

Scrivere: disvelamento della propria identita’
Se questo sforzo viene fatto, se non ci si sottrae a questa fatica iniziale, si possono avere molti ritorni positivi. Perche’ scrivere puo’ aiutare a tenerci in contatto con gli altri, a farci sentire meno soli. Infatti, scriviamo per farci leggere, per raggiungere gli altri, non importa quanti.
Ma, a differenza del parlare, chi scrive non ha davanti a se’ nessuno, non un volto, un’espressione che possa confermare o negare, un lampo negli occhi che possa indicare “ho capito”, uno sguardo che dica “ci siamo”, un’interruzione che aiuti, poi, a proseguire.
Il foglio bianco, lo schermo vuoto del computer, pongono moltissime persone in una situazione di disagio psicologico. Sono da invidiare le persone – una minoranza, per la verita’ – che scrivono a mo’ di fiume in piena, completamente privi di freni inibitori, con una sorta di automatismo che quasi accompagna la mano a mettere nero su bianco. Non e’ detto, pero’, che i risultati, dal punto di vista del lettore siano dei migliori: la scrittura, infatti, si avvantaggia di molte revisioni e molti dubbi. e’ anche per questa ragione che e’ faticosa, perche’ assomiglia in un certo senso a un’opera di restauro in cui con pazienza si pulisce, con delicatezza si cerca di far affiorare cio’ che sta sotto e di restituire l’immagine originale. Anche la scrittura e’ un po’ restituire formalmente agli altri una propria immagine originale interna, e’ un mettere a nudo la propria identita’. e’ anche per questo che puo’ essere cosi’ difficile.
La difficolta’ maggiore della scrittura non nasce tanto dai vincoli delle regole grammaticali – che possono costituire un aiuto, se le si conosce – quanto da questa impresa solitaria di disvelamento di un’identita’. Puo’ essere uno sforzo tremendo che nasce da piu’ necessita’: la prima e’ forse quella di dare ordine ai pensieri, ma subito dopo nasce la difficolta’ di dare senso ai pensieri, di tradurre i propri pensieri in un linguaggio – quello scritto – che possa rappresentare un senso anche per gli altri.

Dal pensiero alla pagina
Gran parte della fatica scaturisce, in molti casi, da una forma di lotta immediata che si stabilisce con la propria censura interna. I pensieri si affollano nella mente, corrono a una velocita’ infinitamente superiore a quella cui la mano sul foglio o le dita sulla tastiera del computer possono andare. La scrittura sembra essere uno strumento di comunicazione parziale, monco, interrotto, insufficiente.
Questo processo tormentato – pensiero, scrittura, rilettura, pensiero – diviene un po’ piu’ leggero quando la scrittura comincia a diventare una sorta di cremagliera, che fa aderire i pensieri alla pagina. e’ un momento magico per chi scrive, difficile da descrivere e difficile da costruire, ma che indubbiamente si coltiva con la pratica dello scrivere. Quando questo momento magico comincia a farsi strada, ecco che diminuisce il senso di smarrimento e di fatica, e si comincia a sentirsi meno soli. Ecco, allora, che intervengono in aiuto alcuni compagni di viaggio che ci prendono per mano. Sono le sensazioni forti, le emozioni, le intuizioni, alcune conversazioni importanti che hanno colpito la nostra immaginazione, immagini scolpite nella nostra testa, letture che hanno lasciato una registrazione indelebile dentro di noi e che riaffiorano all’improvviso in un gioco di rimandi.

La fatica e il piacere del processo di ricostruzione
Questa fatica della scrittura, paradossalmente, e’ tanto piu’ elevata quanto maggiore e’ il grado di liberta’, quanto piu’ il contenuto e’ personale e si scrive di se stessi. Non sempre la liberta’ rende piu’ leggero questo processo di costruzione. e’ forse piu’ faticoso scrivere una lettera d’amore che stendere un atto amministrativo o una nota tecnica. In questo tipo di scrittura che precedentemente si era definita “di servizio”, la fatica puo’ essere rappresentata dalla necessita’ di sintesi (non irrilevante), dalla necessita’ della chiarezza (molto importante), dal bisogno di non trascurare tutti gli elementi necessari. A scuola, quando un docente vuole esprimere una valutazione negativa su un tema svolto da uno studente, gli fa presente che non ha svolto un tema, ma ha stilato la nota della spesa. Ma anche la nota della spesa richiede una piccola dose di fatica: mettere in ordine le ricevute, senza dimenticare nulla, operando quindi un processo di ricostruzione.
Scrivere, in ogni caso, vuol dire ricostruire, dare ordine alle cose, fare emergere un quadro. E tutto questo e’ faticoso. Vi e’ sempre, pero’, in tutte le nostre attivita’, un momento in cui la fatica e il piacere sono molto vicini, addirittura interdipendenti. Questo succede anche nella scrittura. Quando il materiale che e’ emerso attaverso lo scrivere assume una forma che crea un senso compiuto – o cosi’ pare a chi ha scritto – ecco che si prova piu’ o meno la stessa sensazione di chi ha terminato una lunga ascensione in montagna: raggiunta la cima, il dolore nelle gambe quasi non si sente piu’ e guardando indietro, il cammino sembra cosi’ breve, e la fatica, per incanto, svanisce.

C’era una volta la stampa. Consonanti e vocali a danzare e fondersi in soggetti, predicati, verbi, complementi, e poi punti e virgole e accenti a scandire tempi e pause. Un centinaio di segni, non di piu’, nelle roboanti variazioni di maiuscolo e minuscolo, di stampatello e di corsivo, di foggia a volte buffa, la Òg”, a volte rigorosi, la Òt”, a volte perfetti, la Òo”, a volte inquietanti, il Ò?”, eppure artefici, quando sapientemente combinati, di un monumento all’armonia, di un concerto di suoni, di cattedrali di sensi, di costruzioni architettoniche straordinarie in se’ e quale elemento del periodare. Miracolosamente comprensibili al sapiente e al bambino poco piu’ che analfabeta.
Mattoncini per equilibrismi letterali e per giochi esistenziali. Dal buon Gutemberg elevati all’immortale, momento perenne al pensiero scritto, con un’invenzione semplice eppur geniale: i Òcaratteri” da stampa; blocchetti di piombo, singolarmente scuri e inanimati che uniti da mani agili ed esperte ad altri blocchetti scuri e inanimati squarciavano l’oscurita’ e creavano il mito. Ed ecco conficcate nel ricordo le parole di My Way, gli elzeviri di Montanelli, le lande estreme di Chatwin, gli intarsi letterari di Dostoevskij, gli umori corrosivi di Bukowski e via andando. I caratteri da stampa, quei simpatici affarini che, apparentemente insulsi, hanno conferito dignita’ alle leggende medioevali cosi’ come ai racconti mitologici, agli ideali e alle utopie, sposando il piacere di scrivere a quello di leggere, che sfociava nel quasi-feticismo dello sfogliar pagine fruscianti di profumo d’inchiostro. Visione romantica. Spazzata via. Da tastiere elettroniche, robi asettici dove alle porte della fantasia si sostituiscono porte seriali, dove gli impulsi creativi si confondono con gli impulsi elettrici, in un trionfo di cd rom, realta’ virtuali e mega bytes, e il sacro fuoco della scrittura e’ raffreddato, reso algido, dal ghiaccio del remoto futuro. Sfacelo. Il popolo di santi, navigatori e di scrittori, dove otto su dieci tengono almeno un diario della loro vita e la meta’ tenta spudoratamente di pubblicarlo, si e’ adeguato, e scrive. Scrive tutto e il contrario, con la fregola di riempire spazio pigiando monotoni tasti grigi (sic), e sovverte antichi detti, smantella certezze, e mi si perdoni il riferimento all’ormai imperante: verba volant, scripta purent. Scrive di tutto, per scaricare la coscienza o per lasciare traccia di se’, e laddove le tracce erano quelle dei Danti Alighieri ora sono quelle delle delusioni che si leggono in viso ai lettori, che magari cercavano i potenti fremiti romantici e si ritrovano con i pulp-demenziali. Dispiace.
Per la facilita’ dei mezzi di scrittura che hanno stritolato la facilita’ di scrittura di chi ha qualcosa da dire, per la freddezza delle pagine che escono calde da stampanti laser ad altissima definizione, ma soprattutto per la messa a riposo dei caratteri da stampa, che la societa’ del senza piombo ha relegato in soffitta concedendo rivincita postuma ai minatori benedettini. Che qualcuno se li ricordi, se puo’, e ne tramandi l’esistenza ai posteri, come oggetto bello di una bellezza semplice ed altera, e ci si ricordi del buon Gutemberg, figuro oscuro eppur geniale, artefice di quel mondo di carta che c’era una volta, e forse non c’e’ piu’.

Questo articolo di Vittore Vezzoli e’ tratto dal libro “Scrivere. Una fatica nera”, di Alessandro Lucchini, realizzato da Deus Editore per la collana “I quaderni di Comunico”.

Supponiamo che una procace salumiera ci allunghi sopra il banco un foglietto unto e bisunto, sul quale aveva scarabocchiato alcune annotazioni mentre facevamo provvista di mortadella e gorgonzola. Noi ci aspettiamo di leggere sul pezzo di carta gli addendi del conto da pagare. Invece n la bella e imprevedibile salumiera aveva approfittato della circostanza per scrivere una dichiarazione d’amore e per chiederci un appuntamento all’imbrunire, davanti alla fontana dei giardini pubblici. L’esito della comunicazione dipendera’ dagli occhi della salumiera e da altre circostanze che dobbiamo tralasciare, se non vogliamo dare a questo articolo una piega non prevista dall’editore. Ma intanto siamo rimasti un po’ interdetti, rigirandoci il foglio tra le mani. Sicuramente abbiamo avuto qualche perplessita’, prima di afferrare la serieta’ della proposta.
Questo significa che la differenza tra l’intenzione della bella salumiera e la nostra previsione disturba la comprensione del messaggio. Infatti, chiunque riceva uno scritto sulla base della propria esperienza elabora una previsione riguardo al messaggio che sta per leggere. Puo’ essere una previsione articolata, una generica speranza, un timore, o solo un accenno di fastidio, ma una qualche forma di previsione, seppure embrionale e inconsapevole, c’e’ sempre. Se riceviamo una lettera dal nostro amato bene, una relazione dal direttore commerciale, o una comunicazione dall’ufficio delle tasse, prima ancora di aprire la busta, noi maturiamo un’aspettativa, anche se non ne siamo consapevoli.
E’ stato dimostrato in modo sperimentale che il messaggio di chi scrive deve spendere una certa fatica per superare il disturbo causato dalla diversa previsione del lettore. Da questa constatazione discende un suggerimento molto importante per rendere i nostri scritti piu’ facilmente comprensibili: cerchiamo di rimuovere la previsione dei lettori introducendo nelle prime frasi, e in modo chiaro e sintetico, il nucleo del nostro messaggio. Questo riduce le interferenze nella comprensione. Di piu’: esprimere subito la nostra intenzione, cioe’ il nostro messaggio principale, favorisce anche la persuasione.
Il meccanismo psicologico che s’instaura e’ il seguente. Supponiamo di scrivere a un potenziale cliente per segnalargli l’opportunita’ di aderire a una nostra offerta promozionale. Il lettore, se non e’ prevenuto contro di noi, legge il nostro esordio e registra la nostra intenzione; non attende piu’ la conferma della sua previsione, ma si aspetta la dimostrazione del nostro messaggio. Poiche’ il contenuto dello scritto sara’ proprio la spiegazione dei vantaggi dell’offerta promozionale, il lettore sara’ indotto, seppure inconsapevolmente, a un pensiero di questo tip “E’ vero, cosi’ come aveva annunciato, mi ha illustrato i vantaggi dell’offerta”. Questo non significa ancora che il lettore abbia aderito alla nostra offerta. “E’ vero, e’ stato coerente” non coincide infatti con “E’ giusto, l’offerta e’ veramente conveniente”. Non sono la stessa cosa, tuttavia a livello inconscio, dove questi processi maturano, i due ragionamenti hanno una qualche consonanza e il primo (quello che riconosce la coerenza) stabilisce un pregiudizio favorevole all’accettazione della nostra proposta. Possiamo dunque proporre la seguente considerazione: se fin dall’inizio il lettore riceve un’idea precisa del nostro messaggio sara’ indotto a rilevare una coerenza tra l’esordio e la conclusione. Questo rende il messaggio piu’ persuasivo. Suggerire d’iniziare uno scritto con l’esposizione chiara e sintetica del nostro messaggio principale introduce un altro tema: l’ordine del discorso. Ed e’ appunto cio’ che stiamo per fare.

Il sergente e Cicerone, ovvero l’ordine del discorso
E’ consuetudine dell’esercito di Sua Maesta’ britannica che i sergenti accolgano le reclute con un’allocuzione di benvenuto, urlando e minacciando a piu’ non posso. Con un impasto di humour e di rispetto delle tradizioni, gli inglesi schematizzano in questo modo l’ordine del discorso sergentizi
1) Dico cio’ che diro’
2) Lo dico
3) Dico cio’ che ho detto
A prima vista e’ lecita qualche perplessita’. Vien da pensare infatti che il rude militare si conceda qualche ridondanza di troppo perche’ non ha tante cose da dire. Puo’ venirci utile allora vedere come organizzava la sua orazione Marco Tullio Cicerone, cui non mancava la parola.
Ebbene, l’eccellente oratore cosi’ definiva l’ordine del discors
1) exordium: nei paragrafi iniziali indicava il messaggio principale e i criteri seguiti nella successiva esposizione;
2) narratio e argumentati seguivano, lo dice la parola, la descrizione dei fatti e le argomentazioni a favore del messaggio;
3) perorati nel gran finale sinteticamente riproponeva gli argomenti piu’ importanti e soprattutto ribadiva il messaggio.
Lo schema di Cicerone e’ piu’ articolato di quello del sergente, ma, a conti fatti, e’ identico. In particolare in entrambi i casi il messaggio e’ anticipato nella prima parte, sviscerato nella seconda e strombazzato nella terza.
La morale della storia e’ questa:
– se il sergente e il grande oratore concordano sull’ordine del discorso,
– se entrambi concordano con la psicologia sociale, che suggerisce di indicare il messaggio con chiarezza nell’esordio,
– allora e’ molto probabile che quell’ordine sia utile per una comunicazione efficace.
E’ un suggerimento che ci conviene tenere presente, almeno quando le cose che vogliamo scrivere abbiano un minimo di complessita’ e di articolazione. Naturalmente (e per fortuna) non e’ una legge. Ad esempio questo articolo rinuncia a esporre chiaramente il messaggio nell’esordio e preferisce catturare l’attenzione del lettore col sesso della bella salumiera: e’ un mezzuccio deplorevole che non dovrebbe indurci ad abbandonare troppo spesso la via maestra, indicata dal sergente e da Cicerone. In ogni caso e’ importante non scrivere mai a casaccio. In altre parole, lo schema di Cicerone e’ sempre efficace, ma se ci viene alla mente un altro inizio che ci pare utile per catturare il destinatario e indurlo a proseguire nella lettura, possiamo usarlo. A ragion veduta, pero’, e consapevoli di compiere una sregolatezza.

Perche’ scriviamo, ovvero l’importanza del messaggio
A questo punto e’ necessario chiarire due cose:
– precisare che cosa s’intende per messaggio, poiche’ tale concetto e’ centrale nell’ordine del discorso;
– ritornare brevemente sulla ridondanza, perche’, diciamocelo, questa idea di ripetere tre volte la stessa cosa ci disturba un poco e ci sembra in contraddizione con la sempre desiderabile sintesi.
Stiamo sempre parlando di testi argomentativi, come ad esempio la circolare, la relazione, la proposta, il promemoria, eccetera. Per redigere scritti di questo tipo e’ naturalmente necessario raccogliere quanti piu’ dati e quante piu’ idee e’ possibile, ma e’ soprattutto importante estrarre dal mucchio il messaggio principale, l’idea giusta. Il messaggio e’ la ragione per cui scriviamo. Il messaggio risponde alla domanda: “cosa vogliamo che i lettori sappiano, pensino o facciano dopo aver letto il nostro scritto?” Chiariamo subito che il messaggio cosi’ inteso non coincide necessariamente con l’argomento ufficiale, eventualmente dichiarato dal titolo. Pensiamo, ad esempio, di dover mandare al direttore generale una relazione sull’attivita’ dell’ultimo anno nel settore di nostra competenza. Il titolo, e l’argomento ufficiale, potrebbe essere: “12 mesi del Servizio… Dati, analisi e prospettive.”. Il messaggio invece potrebbe essere: “Siamo stati bravi”, oppure “Occorre aumentare le risorse”. Cosi’ formulato, il messaggio diventa uno strumento potente per articolare una scaletta logica e convincente e per scrivere con una certa rapidita’ un testo efficace.
Occorre tuttavia chiarire due punti.
1) Il messaggio dev’essere univoco. In un seminario sulla comunicazione scritta, durante un’esercitazione che aveva appunto lo scopo di verificare la praticita’ di darsi un messaggio ben definito, ne avevamo scelto uno cosi’ formulat “Malgrado le poche risorse, abbiamo fatto un buon lavoro”. Con questo messaggio tra le mani ci infilammo in un vicolo cieco, senza riuscire a metter giu’ una scaletta decente. A questo punto il piu’ sveglio tra i presenti noto’ che il messaggio non era univoco, ma ne nascondeva due, e precisamente quelli indicati sopra: “siamo stati bravi” e “occorre aumentare le risorse”. Da questo punto l’esercitazione prosegui’ in discesa, raggiungendo lo scopo di confermare l’efficacia di un messaggio precisamente definito per una buona scaletta e un buon testo.
2) Il secondo punto da chiarire, diretta conseguenza del primo, e’ che l’univocita’ del messaggio non puo’ e non deve nascondere la complessita’ del tema (se la complessita’ e’ nelle cose, beninteso, e non nella confusione mentale).
I fatti e gli argomenti che debbono entrare in un testo hanno in genere una certa numerosita’; anche gli obiettivi che ci proponiamo con uno scritto possono essere piu’ d’uno. Scegliere un messaggio non significa cancellare gli obiettivi, diciamo cosi’, secondari; significa subordinarli al messaggio principale. Questa operazione non e’ sempre facile, ma dovrebbe essere sempre possibile: se cosi’ non e’, vuol dire che stiamo cercando di trasmettere messaggi contraddittori. A volte l’argomento sembra respingere la possibilita’ di lasciarsi organizzare intorno a un unico messaggio. Supponiamo di dover descrivere le tappe salienti della nostra azienda, dalle origini a oggi. Noi possiamo semplicemente elencare i fatti, anno dopo anno. Se pero’ riusciamo a enucleare un messaggio (quello che oggi ci pare piu’ utile, o quello che meglio risponde alla storia della nostra azienda), il nostro testo riuscira’ piu’ efficace. Il messaggio puo’ essere: la costante ricerca della massima qualita’, il rispetto dell’ambiente, i buoni rapporti con la comunita’, o quel che ci pare. Se abbiamo scelto un messaggio centrato sugli alti profitti conseguiti, anche l’eventuale dato negativo di qualche anno puo’ essere organizzato intorno all’asse della ricerca del massimo profitto, come l’eccezione prontamente recuperata. In ogni caso, con un messaggio qualunque in testa, purche’ chiaro e univoco, avremo scritto un testo piu’ leggibile, piu’ convincente, che probabilmente lascera’ qualcosa nella testa del lettore. Organizzare la scaletta di un testo intorno a un messaggio e’ forse l’operazione piu’ redditizia per produrre uno scritto efficace. E la ragione e’ semplice. Tutto questo lungo parlare dice infatti una cosa sola: domandiamoci sempre il perche’ di quello che facciamo. Possibilmente prima di farlo.

Giacomo Leopardi, ovvero l’utilita’ della ridondanza
L’ordine del discorso sergentizio e’ ridondante: dico cio’ che diro’, lo dico, dico cio’ che ho detto. Due cose sono fuor di dubbi la ripetizione e’ nemica della sintesi; se poi e’ pedissequa ed eccessiva, risulta addirittura irritante. Tuttavia la ridondanza, dissimulata da cambiamenti formali e giustificata dall’ordine del discorso, non e’ sgradita e puo’ tornare utile al lettore. Se infatti nell’esordio annunciamo il messaggio, il lettore si aspetta una sua piu’ dettagliata esposizione. Ugualmente, quando segnaliamo la conclusione (“In sintesi possiamo dire…”), il lettore si attende una sintetica ripetizione del messaggio. In altre parole, lo schema del sergente (e la ridondanza che ne consegue), realizza una sequenza, non solo accettata, ma anche attesa dal lettore.
Inoltre, tornare tre volte sullo stesso messaggio, beninteso con parole e modi diversi, produce due effetti assai desiderabili.
1) Riduce i rischi dell’incomprensione. E’ difficile scoprire in anticipo dove si nascondono i pericoli di fraintendimento; sappiamo pero’ che le incomprensioni, totali o parziali, sono sempre piu’ numerose di quanto ci aspettiamo e tendono a rimanere sommerse. La ripetizione, come sperimentano tutti gli insegnanti, e’ uno dei mezzi piu’ efficaci per tentare di ridurre l’area d’incomprensione.
2) Facilita la persuasione. Per illustrare questo punto, cediamo la parola a Giacomo Leopardi: “Nessuna opinione vera o falsa, ma contraria all’opinione dominante e generale, si e’ mai stabilita nel mondo istantaneamente, e in forza di una dimostrazione lucida e palpabile, ma a forza di ripetizioni e quindi di assuefazione”.
L’annotazione, tratta dallo “Zibaldone”, e’ del 17 settembre 1821. Oggi anche la pubblicita’ ha imparato a bombardarci con ossessive ripetizioni, mentre gli studi sul cervello umano indicano che i processi di assimilazione delle idee potrebbero essere proprio quelli intuiti da Leopardi: ripetizione e assuefazione. E la brevita’ dei testi? E’ un problema: per cause varie, ma soprattutto per l’influenza del linguaggio televisivo, la lunghezza dei testi (e dei periodi) che siamo disposti ad accettare si riduce sempre piu’. D’altro canto la ridondanza allunga i testi; anche i periodi corti, cioe’ quelli piu’ chiari, aumentano il numero delle parole. E allora? Allora l’unico modo per risolvere la contraddizione e’ quello di scrivere poche cose, ma di scriverle chiaramente, con tutte le parole necessarie.
Spesso chi deve mandare una relazione al direttore generale e’ preso dall’ansia di dire tutto. Il direttore invece scorre faticosamente il testo con un rovell “Ma fammi capire, in sintesi, che cavolo vuole costui da me?” In altre parole il direttore vuole il messaggio, univoco e preciso, piu’ i fatti e gli argomenti necessari per dimostrarlo. E basta.

Questo articolo di Vittore Vezzoli e’ tratto dal libro “Scrivere. Fatica nera.”, di Alessandro Lucchini, realizzato da Deus Editore per la collana “I quaderni di Comunico”.

Testimonianze illustri sull’uso della scrittura.

L’effimero
Ho SCRITTO t’amo sulla sabbia
e il vento a poco a poco
se l’e’ portato via con se’
(Franco IV e Franco I – Ho scritto t’amo sulla sabbia)

Il diporto
Se son d’umore nero allora SCRIVO
frugando dentro alle nostre miserie
di solito ho da far cose piu’ serie
costruire su macerie
o mantenermi vivo
(Francesco Guccini – L’avvelenata)

La figura retorica (Sinestesia)
Caro amico ti SCRIVO
cosi’ mi distraggo un po’
e siccome sei molto lontano
PIU’ FORTE TI SCRIVERO’
(Lucio Dalla – L’anno che verra’)

L’informazione spicciola
E tu SCRIVIMI, SCRIVIMI
se ti viene la voglia e raccontami quello che fai
(Francesco De Gregori – Natale)

L’inadeguatezza del mezzo
Ho gia’ fatto le valigie
e adesso sto SCRIVENDO
questa lettera per te
ma non so che cosa dire
e’ difficile spiegare
quel che anch’io non so capire
(Dik Dik – Il vento)

Scrivere: una fatica nera
It’s a thousand pages give or take a few
I’ll be WRITING more in a week or two
I can make it longer if you like the style
I can change it round
And I want to be a Paperback WRITER
Paperback WRITER
Sono un migliaio di pagine piu’ o meno
posso SCRIVERE di piu’ in una settimana o due
posso allungarlo se vi piace lo stile
e posso fare cambiamenti
E voglio essere uno SCRITTORE di libri tascabili
SCRITTORE di libri tascabili
(The Beatles – Paperback Writer)

La filosofia e’ scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si puo’ intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali e’ scritto. Egli e’ scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi e’ impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi e’ un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.
Galileo Galilei, Il Saggiatore, 1623

Faticoso e difficile il lavoro dello scienziato, del ricercatore che fa esperimenti ogni giorno cercando di dimostrare un’ipotesi, di falsificare una nuova teoria. Ancora piu’ difficile tener conto dei dati non conformi alla teoria stessa, che non seguono le leggi di regolarita’ della natura, le cosiddette anomalie. E poi di seguito, l’intervento del genio, di quello spunto che mostra allo studioso la regolarita’ dei fenomeni anomali, che lo porta a scoprire – o magari soltanto a intuire – una nuova legge della natura, regolata forse dal caos.

La logica e la passione
Il cervello dello scienziato non e’ solo logico, ma passionale. La ragione e la logica compongono la struttura del nostro modo di pensare mentre l’attivita’ di mettere in relazione e’ creativa, ha moltissimi gradi di liberta’. Il nocciolo sta nella capacita’ di mettere a confronto razionalita’ e impulso creativo, logica e pathos. Una teoria rivoluzionaria nasce spesso da intuizioni semplici, si fonda su un lavoro costante e dettagliato di ricerca e ha una solida base matematica; ha il potere di modificare totalmente il modo di pensare di coloro che riescono ad afferrarla spostando il centro del loro universo. Di tutto questo processo cosa si coglie all’esterno? Il lavoro, la creativita’, la rivoluzione di pensiero, i cambiamenti nella vita di ogni giorno non sono semplici da capire. Si, perche’ proprio questo e’ il problema, la comprensione della scienza da parte di coloro che di scienza non si occupano, che ne rifiutano a priori gli aspetti dogmatici. Quando la comunita’ scientifica espone i suoi successi, lo fa in un linguaggio criptico, per iniziati, spesso usando una formulazione matematica difficilmente fruibile anche dagli studiosi stessi. Il fatto che una teoria sia dimostrata matematicamente per iscritto e che venga pubblicata da qualche rivista specializzata non significa che sia stata divulgata, ne’ tantomeno capita.

Scienza e pseudo-scienza
Alcune riviste pseudo-scientifiche scrivono invece di scienza in termini entusiastici, strillando di cure miracolose e di extraterrestri, puntando sulla speranza riposta dalle persone in cio’ che e’ difficile comprendere, e questa e’ manipolazione. Chi studia seriamente, invece, si trova nel mezzo di queste comunicazioni scritte, capisce che certe scoperte stanno cambiando il suo mondo e prova a interpretarle, per dare loro un contenuto chiaro. Il problema e’ la difficolta’ di comunicazione, perche’ ogni settore della scienza e’ e si comporta come un mondo a parte, che in teoria da’ gli strumenti per fruire di se’ ma in pratica non mette in rilievo in nessun modo i dati importanti, i parametri che contano veramente all’interno della trattazione. Cio’ che appare all’esterno, a chi vuole sapere qualcosa delle nuove frontiere della scienza pur non essendo fisico o matematico, e’ un insieme di testi compilativi, ricchi di dati e di dimostrazioni matematiche da cui e’ difficile trarre alcun suggerimento; sembra cosi’ che occuparsi di fisica o di altre scienze applicate sia un mestiere noioso, da ammirare da un lato ma anche da temere, come si temono i saperi di casta.
Cosi’ spesso si rinuncia alla battaglia, alla decrittazione del testo scientifico, soprattutto da parte di chi proviene dal mondo umanistico, che si vede sprovvisto degli strumenti necessari e ritiene che il compito di colmare queste lacune sia troppo gravoso. La parola “divulgazione” sul vocabolario Treccani e’ associata alla seguente definizione: “(…) diffusione di teorie o dottrine scientifiche, filosofiche, politiche, economiche ecc. attraverso esposizioni piane e compendiose, senza tecnicismi, e insieme sufficientemente sistematiche, sia come fine a se stessa, sia con lo scopo di interessare un sempre piu’ largo strato sociale alle nuove scoperte, al progresso del pensiero e della scienza e di contribuire all’elevazione politico-culturale delle masse.”.

Creare legami tra scienze diverse
Non sono parole da prendere alla leggera, queste, e divulgare la scienza non e’ davvero un percorso piano. La divulgazione ha per definizione un compito importante, necessario anche a creare legami tra scienze diverse, a favorire la creativita’ di chi studia e a contribuire allo sviluppo di legami tra i diversi ambiti del sapere. Spesso infatti in scienze diverse procedono ricerche parallele, con profonde analogie tra loro ma senza punti “istituzionali” di incontro solo perche’ fanno parte di ambiti accademici diversi, che non hanno mai lavorato insieme. Quella della settorialita’ e’ una pecca della cultura italiana, assolutamente restia a ogni tipo di formazione interdisciplinare; lo si vede anche sugli scaffali delle librerie dedicati alla scienza, dove troviamo per lo piu’ opere americane, piuttosto distanti dal nostro modo di pensare.
In generale, e’ un problema di metodo e di volonta’. La scrittura scientifica e’ essenzialmente deduttiva, deve giustificare logicamente ogni suo passo, ogni singola asserzione. In un saggio invece, come in un’opera di narrativa, si possono fare dei salti logici, si usano le metafore per spiegare i concetti importanti e magari ci si possono permettere alcuni vezzi. La scrittura scientifica e’ piu’ fredda, schematica e generalmente non sembra dare rilievo ai dettagli salienti di un problema; anche il tempo di scrittura e’ diverso, e’ lento ed estenuante, non lascia niente al caso – o almeno non dovrebbe. Un lungo lavoro di interpretazione dei dati spetta a chi cerca il nucleo di una teoria, la sua versione generalizzata ed estendibile ad altre esperienze. Chi scrive ci ha provato e si e’ arricchito; in questo valore e’ sottintesa anche una proposta per chi ha paura della scienza, per chi l’ha guardata sempre con occhi sospettosi. Per di piu’ si prova una grande soddisfazione quando si riescono a padroneggiare con una certa competenza quegli argomenti che a prima lettura sembravano inaccessibili e lontani, quando da pagine e pagine di formule si evince un contenuto, un modello da applicare.

Eisten c’e’ riuscito
Per scrivere bene di scienza bisogna essere bravi davvero, perche’ e’ un compito importante che richiede grande impegno e perche’ e’ un lavoro poco riconosciuto, soprattutto dagli ambienti scientifici piu’ dogmatici, sempre pronti a sminuire il lavoro del divulgatore. Einstein pero’ ci e’ riuscito, con l’esposizione divulgativa della relativita’: ÇIl presente volume vuole offrire una visione per quanto e’ possibile esatta della teoria della relativita’ a quei lettori che si interessano di tale teoria da un punto di vista scientifico generale e filosofico, senza avere familiarita’ con l’apparato matematico della fisica teorica. (…) L’autore ha compiuto ogni sforzo nel tentativo di esporre le idee basilari nella forma piu’ chiara e piu’ semplice possibile, presentandole, nel complesso, in quell’ordine e in quella connessione in cui si sono effettivamente formate. (…) Ho invece di proposito trattato le basi empirico-fisiche della teoria “come farebbe una matrigna”, per evitare che al lettore, poco pratico di fisica, accada come al viandante, che passando fra gli alberi non riesce a vedere la foresta. Possa questo volume procurare a qualcuno ore felici di stimolante meditazione!È.

Economia, poesia, formazione aziendale, design, critica letteraria: linguaggi e forme di scrittura per iniziati. L’unico modo per entrarvi: saper fare la domanda giusta.

Nomen Numen. Lo sapevano i Padri Latini e lo dicevano per significare che ogni nome evoca, annuncia la Forza che lo anima. E non si riferivano solo al nome proprio, ma conoscevano la potenza della parola in assoluto. Lo scrivere, il lasciare il segno della parola, era considerato dagli Antichi un’azione dal potere tanto evocativo da non poter essere accessibile senza una corretta iniziazione spirituale. Il che non ha niente a che vedere con banali spiegazioni “sociali” o classiste della questione della scrittura. Forse abbiamo perso il senso della scrittura magico-evocativa, ma, si spera, non quello del fascino dello scrivere, tanto piu’ percepibile quando l’oggetto dello scrivere coincide con il suo destinatari l’uomo.

Economia e poesia
Economia e poesia, tanto per fare un esempio, non sono ambiti cosi’ incommensurabili, e il fatto che nelle tematiche aziendali si trattino argomenti piu’ circoscritti (nello spazio spirituale) non e’ una scusa plausibile per scriverne in modo asettico, facendo uso di una terminologia volutamente specialistica, chiusa e criptica, per chi non sia del mestiere. E lo stesso si puo’ dire per altri ambiti tematici, quali il design o la critica letteraria, per esempio. Con una scelta eccessivamente specialistica si perde una grande opportunita’, quella di evidenziare il significato comunicativo dello scrivere e di nascondere il suo obiettivo principale: raggiungere il destinatario designato. L’uomo.
ReenginewIl paradosso delle risorse umane
In questo senso e’ paradossale il caso della formazione aziendale e, piu’ in generale, delle teorie economiche collegate al cosiddetto sviluppo delle Risorse Umane. Gia’ l’impostazione del tema – il binomio uomo-risorsa – e’ fuorviante, se non viene specificato in che senso l’uomo diventa una risorsa, fino a che punto questa parola lo rende simile ad altre risorse, finanziarie, ambientali, tecnologiche, e via dicendo. Il realta’, con il concetto di sviluppo delle R.U. si dovrebbe intendere tutto l’insieme delle azioni volte a migliorare insieme la produttivita’, l’efficienza e il benessere in azienda delle persone che ci lavorano. Si tratta di realizzare una convivenza uomo-azienda – con i capi, i colleghi, con i meccanismi aziendali in generale – proficua sia per l’uno sia per l’altra. E’ ovvio, infatti, che un’organizzazione non puo’ mantenere o rafforzare la propria posizione sul mercato se chi ci lavora non da’ il meglio di se’.
Il paradosso e’ che anche se i piu’ “padroni” tra i dirigenti lo hanno capito, non sempre riescono a farlo capire ai propri uomini, ne’ tanto meno all’esterno. E purtroppo non si puo’ dire che la stampa riesca a essere radicalmente efficiente in questo compito. Il risultato e’ una sfiducia latente nei confronti di temi cosi’ importanti; le parole formazione, motivazione… non sembrano in grado di svelare appieno il proprio “nume” e perdono di forza. Forse un suggerimento puo’ essere quello di chiedere ai propri interlocutori, ai propri capi, di spiegare cosa intendono – per esempio – con la parola “motivare”, in che modo intendono usarla per raggiungere l’obiettivo finale, a che cosa “serve”. E poi obbligarli a mantenere la parola.

Design, forma e pensiero
Trovare nuovi concept per un prodotto vuol dire proporne nuovi utilizzi, per rispondere a esigenze che, forse, l’utente finale non sapeva di avere con l’obiettivo dichiarato di rendere la vita dell’uomo migliore, piu’ funzionale, piu’ bella. E’ ovvio, quindi, che una simile vocazione richieda un ampio percorso del pensiero. Se un oggetto di design poteva essere definito innovativo “solo” per la sua forma e funzione, in realta’ la sua forza sta – forse soprattutto – nella conoscenza che ne e’ alla base. Altrimenti e’ solo moda. Spesso si scrive di design con due modalita’ apparentemente opposte, ma altrettanto inefficaci persino per comunicare il valore innovativo del prodotto; quella ultra-specialistica di certi super-addetti ai lavori, o quella banalizzante della forma-carina-che-fa-tendenza dei divulgatori a ogni costo. Anche in questo caso puo’ essere utile saper fare la domanda giusta. Parlare del design come di un “valore aggiunto” puo’ essere limitativo, perche’ la forma di un bene assolve a funzioni diverse: far riconoscere l’oggetto e le sue prestazioni, inquadrare l’oggetto tra gli altri oggetti del mondo, ossia nello spazio fisico e mentale, renderne possibile o favorirne l’uso specifico da parte dell’utilizzatore diretto. In che modo, allora, l’oggetto di design assolve a queste funzioni? Quale nuovo pensiero interpreta? Qual e’ la conoscenza che ne e’ alla base? E, in sostanza, come rende migliore la vita dell’uomo?

Critica letteraria e perdita di potenza
Una metafora e’ una metafora, non altro. Possiamo spiegare cosa vuol dire, ma non cambiarne il nome. Quello della critica letteraria e’ tra gli ambiti in cui le parole hanno maggior peso. Scrivere di letteratura e’ forse la fatica piu’ nera, perche’ impone di usare parole-forze per raccontare altre parole-forze. Troppi numi per chi voglia scriverne – imporre il segno – ed evocarli senza una corretta preparazione interiore. Questa potrebbe essere la metafora stessa della scrittura; potrebbe perche’, come gia’ detto, gli Antichi concepivano che le cose stessero realmente cosi’. E infatti, tranne rari casi, non scrivevano. Per noi quel cammino e’ perduto, ma questo non autorizza a cedere alla tentazione di creare una falsa scrittura magico-iniziatica: quella dell’accademismo letterario. Mi chiedo quanti si siano allontanati definitivamente dalla lettura perche’ i testi che, in teoria, dovevano servire a spiegare loro il significato dei libri, in realta’ li hanno confusi. L’esperienza scolastica di ognuno di noi e’ densa di divine commedie mal spiegate, banalmente parafrasate e trasformate in un’arida accozzaglia di figure retoriche.
Il tecnicismo che imperversa soprattutto nella letteratura scolastica ha tentato di trasformare i testi in ordigni il cui funzionamento e’ retto da leggi meccaniche. Ha tentato, spesso riuscendoci, di soffocare la “forza del nume” e cosi’ ha nascosto l’obiettivo della parola poetica: nutrire lo spirito. Paradossalmente, la soluzione migliore per evitare il de-potenziamento della “scrittura creativa” sarebbe quello di non scriverne piu’, lasciando che la sua forza raggiunga chi la puo’ percepire col grado di intensita’ che e’ pertinente a ognuno. Non riuscendo, pero’, a resistere alla tentazione di scrivere di qualcosa che e’ gia’ stato scritto, ci si potrebbe, invece, concentrare sull’interlocutore, e, sicuri che quel testo non potra’ che arricchire il suo spirito, invitarlo, in modo convincente, semplicemente a leggere.

Una delle prime regole per parlare in pubblico e’ quella di non presentarsi mai con un malloppo di carte in mano. Non appena l’ascoltatore vede che il conferenziere ha esaurito la prima pagina e la scosta dal mucchio, sporge la testa per valutare quante altre pagine dovra’ subirsi. La prima qualita’ del comunicatore e’ quella di non essere ansiogeno, ma accattivarsi la simpatia del suo uditorio. I latini la chiamavano “captatio benevolentiae”. E’ l’arte d’interessare subito il pubblico incuriosendolo sin dalle prime battute. Lo constatai a Napoli, da ragazzo, nell’osservare un venditore ambulante che richiamava l’attenzione dei passanti avvolgendo un foglio di giornale e spiegando ad alta voce cio’ che andava facend “o cuoppo s’abbrucia – illustrava, accendendo contemporaneamente un fiammifero – e la polvere carbonizzata comparisce e scomparisce nel regno dei misteri…”.
Bruciato il foglio, mentre la gente si era radunata a cerchio intorno a lui per vedere come andava a finire quell’insolito esperimento, lui esibiva il prodotto che andava a vendere. Si trattava di un cavamacchie che, a suo dire, levava qualunque macchia di qualunque colore, odore e sapore: “d’uoglio, Ônzogna, arecheta e pummarola…” per dire che nemmeno l’olio, il pomodoro e spezie varie potevano resistere allo smacchiatore.
Quel venditore non aveva certamente studiato libri di marketing, di pubblicita’ o d’oratoria antica. Ma aveva capito cio’ che i retori di ieri e di oggi raccomandano a chi fa della parola il suo strumento di lavor tener desta l’attenzione del pubblico e accattivarsene subito la simpatia. Un’altra regola raccomandata dagli esperti e’ di dire qualcosa solamente se si ha davvero qualche cosa da dire. Sembra ovvio, ma se ci fate caso quasi ogni giorno siamo afflitti da volti televisivi che, pur di dimostrare che esistono, arzigogolano sul nulla. E magari avessero una faccia passabile, rasserenante gioiosa, che potesse in qualche modo riempire il vuoto delle loro dichiarazioni! Il volto ha un’importanza enorme nella comunicazione orale. Per cui, chi si accinge a parlare, dovrebbe sapere che diventa un venditore. Come tale, per agevolare la comunicazione, dovrebbe accompagnare le sue parole con un volto sereno, disteso, magari con un sorriso. Dicono i cinesi: chi non sa sorridere non dovrebbe mai aprire un negozio. Scriveva Longanesi: non sono le idee che mi spaventano, ma certe facce che rappresentano queste idee.
Se dunque aboliamo il “malloppo” per non spaventare il pubblico, occorre dargli atto che ci siamo preparati su cio’ che andremo a dirgli. Nulla di male, dunque, se mostriamo una o piu’ scalette che terremo sott’occhio, sia per non perdere il filo del discorso (quante volte ci capita di andare fuori tema, aprendo parentesi, o raccontando cose che avremmo fatto meglio a tacere), sia per mantenerci nei limiti che ci siamo prefissi. La scaletta e’ la sintesi di ciascuno degli argomenti che andremo a trattare.

Scrivere, riscrivere e strappare tutto
In realta’, quando ci accingiamo a preparare un discorso, dovremmo innanzi tutto scrivere le cose che vogliamo dire, poi rileggerle, integrarle o accorciarle, semplificarle, cancellando e cancellando spesso – come raccomandava Orazio – se vogliamo che un messaggio rimanga perche’ significhi realmente qualcosa per gli altri. Alla fine, dovremmo avere il coraggio di strappare tutto quanto abbiamo scritto (beato chi ha un simile coraggio!) e arrivare a concludere che le cose veramente essenziali che vogliamo far sapere alla gente sono quattro, non trenta o cinquantasette.
Sintetizzare quelle quattro o cinque cose da dire, significa realizzare il lavoro dei re-writers, di coloro che nelle redazioni riscrivono i testi inviati dai cronisti. Presso il Corriere della Sera erano chiamati estensori – ci dice Gaetano Afeltra – quei giornalisti che utilizzavano, dandogli forma ufficiale e definitiva, i resoconti dei reporter. Fare spremute delle cose da dire, riducendole in pillole, come del resto fanno gli attuali titolisti dei quotidiani, e’ un lavoro meritorio che spetta al comunicatore e non al pubblico. Magari tanti scrittori usassero la stessa tecnica, risparmiando la fatica al lettore, che spesso deve scorrere pagine e pagine per riuscire a capire finalmente dove lo scrittore voleva andare a parare! Quanti libri costerebbero di meno, e quanti discorsi finirebbero piu’ in fretta, con gioia degli ascoltatori, se chi comunica si abituasse alla sintesi, rinunciando al vizio di parlarsi addosso nell’illusione di far bella figura.
L’abilita’ di chi parla, o scrive, sta nel terminare il proprio dire prima che la gente smetta di dargli udienza. Dicono gli inglesi: un pensiero che e’ espresso in 100, piuttosto che in 30 parole, non merita d’essere detto. Un’altra raccomandazione per chi parla in pubblico e’ quella di rompere il ghiaccio che necessariamente esiste tra la cattedra e l’uditorio. C’e’ chi usa un sorridente salut Padre Mariano, nelle sue gioiose conversazioni televisive, incominciava con un “pace e bene a tutti”. C’e’ chi inizia con un aneddot ricordo la predica di Don Riccardo Arpino, nella Cattedrale di Amalfi il primo giorno di qualche anno fa. Si parlava della famiglia e dei doveri dei figli e il predicatore ricordo’ cio’ che avvenne quando lui divento’ sacerdote. Suo padre lo chiamo’ in disparte, gli bacio’ la mano (la prima volta che si invertivano i ruoli) e gli disse: “ora sei prete e puoi diventare anche Papa, ma non dimenticare che io per te sono sempre qualcosa in piu’, non foss’altro che per l’accento…”.
Nel giornalismo, l’inizio di un articolo puo’ essere la sua pietra tombale. Chi scrive si preoccupa d’iniziare bene il suo pezzo altrimenti il lettore va alla ricerca di altri articoli piu’ accattivanti. Il giornalista Silvano Rizza racconta che una volta conto’ i fogli che Italo Pietra, allora direttore de “Il Giorno”, cestino’ uno alla volta prima di trovare le parole giuste per cominciare un suo editoriale: erano 83… talvolta basta anche una battuta breve, che pero’ si raccordi col resto del discorso. Ad esempio, parlando di giudizi e pregiudizi, un conferenziere esordisce dicendo che “e’ sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta: Giuda, ad esempio, aveva amici irreprensibili…”. Insomma, un sorriso fa bene al cuore. Dieci risate al giorno, secondo studiosi californiani, equivalgono a dieci minuti di vogatore, in termini di liberazione di beta-endorfine, e di ginnastica dei muscoli facciali, del diaframma e dell’addome. Qualcuno arriva addirittura a dire che “chi non ride mai non e’ una persona seria…”.

Alcune tecniche
Ci sono diverse tecniche per organizzarsi a scrivere un discorso, prima di presentarlo al pubblico. Ad esempio si puo’ incominciare prendendo il titolo dell’argomento scelto e mettendolo al centro di un foglio. “Trasferiamo sulla carta ogni tipo di possibilita’ che ci passa per la mente”, consiglia Gordon Bell, “lasciamo sviluppare idea da idea, concetto da concetto, ognuno generato dal precedente, non necessariamente in ordine logico; miriamo soltanto alla revisione dell’intero argomento.. Si apriranno davanti a noi decine di possibilita’ e,forse, occorrera’ piu’ di un foglio. Ricordiamoci sempre gli ascoltatori. Lavoriamo in velocita’”. Cio’ che conta non e’ la qualita’ delle idee che appuntiamo,ma la quantita’ da cui si potranno selezionare, successivamente, gli argomenti da sviluppare. Ad esempio, potremo annotare cio’ che il pubblico si aspetta da noi, le fonti che vorremo consultare, gli esempi cui faremo riferimento. Nessun ordine e’ richiesto nell’accumulare le varie “ispirazioni”: buttiamole giu’ come vengono. Ce le ritroveremo tutte quando andremo a mettere ordine nel mucchio delle “provviste” che avremo accumulato.
Di metodi per annotare cio’ che diremo ne sono stati escogitati parecchi:
1. Annotare al centro del foglio il tema da trattare;
2. riportare, tutt’intorno, su differenti rami che partono dal centro, le parole chiave, frasi brevi o disegni che vengono in mente per associazione libera di idee;
3. continuare le ramificazioni, sempre per associazione di idee.
Un’altra tecnica, chiamata “mostro”, E’ quel ripostiglio che useremo per accumulare note, schede, schemi, documenti di vario genere sul tema o sui temi di nostro interesse. E’ una banca di idee cui ricorrere dopo aver classificato il materiale in registri, fascicoli, cartelle o cassette, scatole o rubriche. Nel prendere appunti, cerchiamo di intrappolare le idee, senza sognarci di scrivere tutto, ma limitandoci a fare alcune sintesi. Scriviamo in maniera leggibile, spaziamo gli appunti, compiliamo tabelle, annotiamoci gli elementi non memorizzabili. Ricordiamoci che le note sono per noi, non per l’ascoltatore. Dovendo prendere appunti da un libro (certo, l’ideale sarebbe poterlo leggere tutto), scorriamo la prefazione e il riepilogo; sfogliamolo, facendo attenzione all’inizio e alla fine di ciascun capitolo.
Annotiamo citazioni e frasi-chiave, magari tra virgolette, il che rendera’ il pensiero dell’autore in modo piu’ significativo che se fosse riportato con una parafrasi approssimativa. Usiamo penne di diverso colore, cerchiamo le idee-chiave e usiamo margini larghi,per annotare concetti personali, interrogativi, associazioni di idee. C’e’ anche chi consiglia, nel preparare i fatti da descrivere, di approntare tre liste: una per i fatti essenziali, in cui elencare gli elementi indispensabili per costruire il discorso, una per i fatti integrativi e un’altra per i fatti inutili, dove confineremo le notizie di scarto che faremo bene a eliminare, dopo essere stati tentati di dare ad esse una qualche rilevanza. Noi raccomandiamo una quarta lista, dove annotare particolari frasi a effetto, come quella d’attacco o quella finale, oltre a qualche esempio particolarmente efficace o a qualche aneddoto gia’ collaudato con altri ascoltatori. Ponderiamo bene la frase conclusiva. E’ quella che maggiormente si ricordera’, se e’ d’effetto e ben trovata. Nessun oratore deve alzarsi a parlare se gia’ non ha ben chiara in testa la frase finale del suo discorso.

La mitezza del comunicatore
Nel libro che ho scritto, “L’Arte di parlare in pubblico”, edito dalle Paoline, ho volutamente privilegiato la mitezza nel comunicare. Il comunicatore mite e’ colui che, in virtu’ del buon senso, non ha la pretesa di insegnare cio’ che pensa, ma propone le proprie idee, senza per questo fare sfoggio di cultura. E’ convinto che la buona osteria non ha bisogno di frasche all’esterno per attirare clienti. Il mite – scrive Norberto Bobbio – e’ colui che lascia essere l’altro quello che e’ anche se l’altro e’ arrogante, protervo, prepotente. Non entra in rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere e alla fine di vincere. E’ completamente al di fuori dello spirito della gara, della concorrenza, della rivalita’ e quindi anche della vittoria… Non apre mai lui il fuoco, e quando lo aprono gli altri non si lascia bruciare anche quando non riesce a spegnerlo. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilita’.
Di diverso parere qualche maestro di retorica antica il quale sosteneva che la discussione con talune persone potesse “comportare un abbassamento di livello argomentativo dell’oratore”. (Tipica talvolta la frase di chi dice con altezzosita’: macche’, mi metto a discutere con te?). Non si dovra’ discutere con chiunque – dicevano alcuni – ne’ bisognera’ esercitarsi con il primo venuto. In realta’, quando si argomenta con certe persone, le argomentazioni diventano necessariamente scadenti. Oggi c’e’ chi scherzando esaspera questo principio e ci detta la prima legge del dibattit “Non discutere mai con un’idiota. La gente potrebbe non notare la differenza”. Gli strumenti per ben comunicare ci sono, a partire dall’ABC del cronista: essere accurati, veri e chiari. Stabiliamo innanzitutto la durata che dovra’ avere il nostro discors ne’ troppo corto, perche’ creeremmo disinteresse o frustrazione se l’interlocutore non si rende perfettamente conto di cio’ che gli diciamo. Ne’ troppo lungo, per evitare che ci consideri intollerabili e noiosi. Oggi la moda femminile ha attribuito alla minigonna le qualita’ che deve avere un discors essere lungo abbastanza per coprire gli argomenti essenziali e corto, quanto basta, per suscitarne l’interesse.

La sottovalutazione della sua importanza, la fretta, le colpe della segretaria e del computer, e oggi perfino gli alibi della cyberlingua…

Con la presente vi comunichiamo che il Sig. Fabio Pietro Fabio del Comitato Software si chiama Pietro Fabio (Pietro di nome e Fabio di cognome). Vi preghiamo quindi di voler procedere alla variazione. Cordiali saluti.”

“Con la presente Le invio in allegato i Floppy Disk conteneti (sic!) le desrizioni (sic!) per il Catalogo. La prego di scurare (sic!) il ritardo nella spedizione. Cordialmente.”

“Abbiamo il piacere di annunciarLe che dal 1¡ ottobre Mario Rossi e’ entrato a far parte della nostra societa’. Siamo certi che non manchera’ di agevolare Rossi nei buoni rapporti che intercorrono con lei; e colgo l’occasione per porgerle cordiali saluti

“Egr. Sig./Gent.ma Sig.ra con la presente La infomiamo che a partire dal 1.01.1995 supporteremo la Societa’ XXXX in tutte le attivita’ di relazioni pubbliche e Comunicazione con i mezzi di informazione. Siamo quindi a Sua completa disposizione per ogni informazione Le sia necessaria relativamente a questa societa’. Cordiali saluti.”

“Si comunica che il nuovo Direttore Relazioni Esterne della XXX e’ Guido Bianchi che ha sostituito Mario Rossi che ha assunto nuovi incarichi presso la XXX di Roma.”

“Ho il piacere di invitarla alla conferenza stampa…Sara’ l’occasione per commentare l’andamento del setore (sic!) e fare il punto sulle strategie fture (sic!) del gruppo. Cordiali saluti.

Che fatica scrivere Signor Fabio Pietro Fabio
Ma che succede nella tradizionale letteratura aziendale costituita da lettere di cortesia, comunicazioni interne, telegrammi, inviti via fax dagli uffici stampa di note aziende italiane e straniere? Cosa direbbe la nostra professoressa di italiano di fronte a tali refusi, brutture ortografiche, a cosi’ poca grazia nella forma e nel contenuto? Per dirla con un recente articolo di Fernanda Pivano, forse tutto e’ cominciato quando nelle scuole hanno smesso di insegnare a scrivere quelle belle vocali tonde e quelle belle consonanti diritte e le hanno sostituite con qualche sgorbietto mettendo insieme vocali e consonanti, uno sgorbietto per dire “gli”, uno per dire “dei”, e via. L’ortografia delle parole, l’armonia della frase, l’amore per la bella scrittura sono finite nel passato. Esempi limite a parte, sembra di assistere, anche nella nostra professione, a una sorta di analfabetismo di ritorno, dato dalla fretta, dalla delega della stesura di una lettera a un collaboratore distratto, dalla sottovalutazione dell’importanza della lettera aziendale, lo strumento piu’ frequente e meno amato del nostro lavoro. Gli esempi citati riproducono fedelmente parte di un piccolo archivio personale arricchito negli anni (compreso qualche scivolone in prima persona) che utilizzo come promemoria delle “cose da non fare” nei corsi di comunicazione aziendale e nei training a stagisti e nuovi assunti. Pochi memorizzano le regole base per scrivere una buona lettera (*): con gli esempi mal riusciti hai piu’ possibilita’ di successo.
Quando parliamo di comunicazione d’impresa pensiamo a complesse strategie di marketing communication, rapporti con la stampa, direct marketing, pubblicita’. Difficilmente pensiamo all’importanza fondamentale della scrittura nel nostro lavoro, al successo o all’insuccesso di un progetto in base a una lettera scritta al momento giusto, con le parole giuste e soprattutto con il giusto suono e tono. Oggi, nel curriculum di un candidato, privilegiamo l’ottima padronanza dell’inglese parlato e scritto (ovviamente sacrosanta) piuttosto che l’utilizzo perfetto della lingua italiana che si da’, spesso a torto, per scontata. Provate a fare un test con le persone che vi stanno accanto. Preferirebbero scrivere una lettera o un libro? Ci metto la mano sul fuoco che la maggioranza optera’ per il libro. E’ la scelta piu’ facile: tanto al 99 per cento rimarra’ solo nella nostra immaginazione. Sembra che invece scrivere una lettera di qualsiasi genere sia la cosa meno ambita del mondo. Non e’ nobile come scrivere un libro, da’ meno fama o meno soldi nel caso il libro abbia successo, ma saper scrivere una lettera e’ cosi’ indispensabile nel nostro lavoro e, oserei dire, terribilmente utile e apprezzato nella vita. Noi comunicatori, al massimo, ci concentriamo sullo scrivere bene un progetto da presentare al cliente o nella scrittura di un buon comunicato stampa. Scrivere una lettera non sembra di nostra competenza. Al massimo e’ un problema della segretaria o della memoria del computer: “Per favore signorina, mi tiri fuori dal file quella lettera di due anni fa scritta a quel tale, cambi data e indirizzo e la faccia uguale per l’altro tale, e cosi’ via”. Ed ecco da dove nascono parte delle brutture elencate. Una lettera, soprattutto se breve, deve essere perfetta, nella scelta delle parole e delle frasi come nell’impaginazione. Una lettera e’ come una telefonata, non deve essere ripetibile, deve avere un senso e contenere un messaggio, deve essere calda perche’ l’interlocutore a cui mi rivolgo e’ unico e non vuole appartenere alla massa. Non posso usare strafalcioni quando telefono a qualcun lo irriterei. Perche’ non prestare la stessa attenzione nella stesura di una lettera!

E per fortuna che c’e’ l’e-mail
Oggi con lo sviluppo della comunicazione su Internet e con l’utilizzo sempre piu’ spinto dell’e-mail il problema e’ addirittura superato. Senza affrontarlo, ovviamente. La comunicazione nel cyber spazio (al momento ancora ristretta a una piccola cerchia di tecnofili, ma in rapida espansione) e’ al momento priva di ossatura e non richiede fronzoli vari. L’impianto e’ libero, ognuno puo’ inventare nuove formule, scrivere non e’ piu’ una fatica nera, e’ un gioco, una grande liberazione, diciamolo pure. Nessuno ti giudica. Non c’e’ bisogno di formule peraltro terribilmente arcaiche ma sempre molto usate come “Egregio signore, ho ricevuto la sua pregiata lettera”. Si va al sodo. Spesso si storpia il linguaggio per essere piu’ concisi. Quando leggi alcune e-mail in circolazione comprendi il significato del titolo di un recente articolo sull’Espress “Do you speak Internet?” Siamo di fronte a una nuova lingua, ricca di neologismi, contrazioni, supersintesi e strane invenzioni grafiche. Di esempi noti e’ gia’ ricco il panorama della mega byte generation. Citiamo i piu’ estremi. “Ciao, ti forwardo un mail, se non ti interessa droppalo pure. Maria”. Traduzione: “Ti invio una lettera con la posta elettronica. Se non ti interessa cestinala.” “Ciao, ho ricevuto il tuo fax di ieri. Penso che il tuo sia il primo fax che ricevo dopo anni. I fax sono l’e-mail del 1987. Grazie.”

Rara e ambita come una lettera d’amore
All’analfabetismo di ritorno e al condizionamento della cyberlingua non tutti, per fortuna, si vogliono adeguare. Arriva ogni tanto qualche lettera doc, consegnata timidamente a mano, su carta pregiata, con firma originale. E ti vien da leggerla con cura, con attenzione. Quindi colpisce l’obiettivo. Una lettera consegnata a mano e ben scritta e’ rara quasi quanto una lettera d’amore trovata nella casella della posta quando torni a casa la sera. E se non altro, sul fronte delle lettere d’amore qualcosa si sta muovendo e non solo sul piano delle intenzioni. Ma anche del business. Forse grazie al successo del bel libro dell’editore Adelphi “La lettera d’amore” sembra che il genere stia tornando di gran moda. Anche a pagamento. Apprendo che e’ gia’ boom di richieste per la societa’ romana che ha avuto l’idea di realizzare “missive” d’amore su commissione. E visto che scrivere e’ alla fine un’arte e per scrivere bene ci vuole tecnica, professionalita’, passione, e visto che per molti scrivere una lettera e’ solo una fatica nera, potremmo chiedere all’azienda romana, che sta aprendo un ufficio anche a Milano, di ampliare il business con una divisione per lettere aziendali su commissione. Una sorta di take away, come la pizza. Che tristezza, pero’.

Il panico davanti al foglio bianc un terrore diffusissimo, e non solo tra individui di poca cultura; fior fiore di laureati, persino di estrazione umanistica, “balbettano” con la penna in mano, chiamati al duro compito di mettere nero su bianco. Fin troppo facile trovar loro degli alibi: nel passato un sistema scolastico demenziale, ostile alla creativita’, che riduceva il “componimento” ad un plagio infantile della critica letteraria; o che comunque, ove il tema fosse libero, non pretendeva punti di vista sinceri, ma giudizi omologati e conformisti, ben lontani dal credo di ognuno. Nel “tema” era meglio non esprimere opinioni politiche, convinzioni personali, o comportamenti individuali non ortodossi. In tempi piu’ recenti, ove la ventata di liberalizzazione del post ,68 invogliava ad esprimersi con maggior facilita’, vennero a mancare alcuni strumenti fondamentali. Innanzitutto, portatori del nuovo verbo erano insegnanti giovani, allevati alla scuola della sinistra sessantottina delatinizzata, contrari alla concezione di uno studio matto e disperatissim predicando una totale permissivita’, non contribuivano certo alla formazione di buone penne. Essi per primi non sapevano scrivere, faticando gia’ per la loro stessa tesi di laurea. Dunque… “quis custodiet custodes?”
In quegli anni, oltre tutto, andava radicalizzandosi la cultura importata della comunicazione per immagini. Il trionfo del cinema, ma soprattutto della televisione, imponevano una sorta di “iconografismo” cognitivo, di messaggi in prevalenza foto-grafico-pittorici (come in pubblicita’); privati, cioe’, della parola scritta, che presuppone un processo di interiorizzazione prima di assurgere a livello di conoscenza. Per estensione puo’ dirsi che anche la parola detta andasse perdendo il suo carisma: veicolo di cultura nei tempi antichi dei canti epici tramandati oralmente o delle grandi contese retoriche, aveva perso vigore con l’invenzione della stampa.
Secoli dopo, un’altra rivoluzione tecnologica l’aveva riportata in auge; l’avvento della radio, capace di parlare a distanza, sembrava destinato a restituire al mondo della cultura la ricchezza del linguaggio verbale. In effetti il tele-linguaggio, sempre originato da un testo, e privo di immagini, affascinava l’utente, lasciandogli ampi spazi all’immaginario e alla fantasia, in modo analogo alla produzione letteraria. Dopo pochi decenni, pero’, ecco sopraggiungere il fenomeno televisivo, con un’affermazione tale da ridurre il parlato a sua povera ancella. Sarebbe ancora cambiato tutto con la successiva rivoluzione dei mezzi telematici. Strumento di uso immediato il computer poteva risultare essenziale per lo scrivere, come affermano alcuni. Ma, a nostro avviso, il “personal” e’ fedele alleato di chi gia’ possieda alla base una effettiva capacita’ di espressione; in caso contrario non fara’ altro che spingere sul piano inclinato della pigrizia mentale e dell’inerzia intellettuale, vere fonti dell’afasia dello scrivere (a-grafia?) dilagante. Da cui la fatica nera dello scrivere! Molti, per avallare la propria incapacita’, sostengono non sia nemmeno necessario farlo in modo originale. Col computer risulterebbero disponibili frasi prefabbricate, chiose linguistiche e lemmi raffinati, col vantaggio… della correzione automatica! Perche’ dunque cimentarsi in tanta fatica?

Scrivere: segno di identita’
Si trascura, in tal modo, un rischio incalcolabile: quello di perdere il “segno” personale, il senso della propria unicita’ e autonomia individuale. Noi, in fondo, “siamo quello che diciamo” (e scriviamo); privati della parola non verremmo riconosciuti, e finiremmo per alienarci a noi stessi, perdendo identita’. Il verbo scritto ce ne dona una definita e incontrovertibile. Chi sia scettico in proposito provi a riprendere in mano un proprio tema di molti anni prima; fara’ un bel viaggio all’interno di se’!

Un atto di coraggio
Perche’ dunque arrendersi all’inerzia e non affrontare la fatica nera? A questo punto spezziamo un’ulteriore lancia in favore dello scrivere. Non si tratta solo del peso culturale della parola scritta; a proposito ricordiamo che la televisione, e in generale il linguaggio delle immagini, sono strumenti di comunicazione passiva, riflessa ed acritica, mentre scrivendo ci si impegna in un processo attivo, volontario, critico. Ma sussiste una precisa valenza morale: mettere nero su bianco un’opinione personale non e’ “dare fiato alla bocca”.
E’ un atto coraggioso con cui ci si assume la responsabilita’ di cio’ che si dice. Da quanto e’ scritto non si torna indietro. “Scripta manent, verba volant!” dicevano i latini, mettendo ben a fuoco il concetto. Personalmente seguo nel quotidiano il principio sopra espost nei rapporti professionali, come in quelli personali, metto mano alla penna ogniqualvolta sento il bisogno di una chiarificazione netta, onesta, senza deroghe. “Scrivere, una fatica nera”: non sara’ invece che molti, oltre a peccare per accidia, difettino di chiarezza di idee, onesta’ di pensiero e coraggio nell’assumersi la responsabilita’ delle proprie opinioni?

Nel 1952, quarantacinque anni fa, sono nati: l’estroso tennista Jimmy Connors, il comico toscano Roberto Benigni, il famoso disk-jockey Claudio Cecchetto, il nostro direttore Claudio Maffei. Nello spettacol vince l’Oscar il film “Un americano a Parigi” di Vincent Minnelli; esce sugli schermi “Cantando sotto la pioggia” con Gene Kelly, il cui motivetto e’ cantato da milioni di giovani. Nello sport: Fausto Coppi vince il Giro d’Italia e il Tour de France; alle XV Olimpiadi di Helsinki l’Italia conquista 8 medaglie d’oro, 9 d’argento e 4 di bronzo, e per la prima volta dopo la guerra partecipa l’Unione Sovietica; Zeno Colo’ vince l’oro nella discesa libera alle Olimpiadi in Norvegia. Inoltre: Albert Schweitzer ottiene il premio Nobel per la pace; a 25 anni Elisabetta diventa Regina d’Inghilterra; viene siglato il trattato di pace tra gli USA e il Giappone; Dwight D. Eysenhower viene eletto Presidente degli USA; una lettera di risposta a una richiesta di alloggio per le ferie estive era una fatica nera…ecco un esempio originale:

Ortona a Mare 17/4/1952

Gentile Signora,
sono felice di rispondere alla sua missiva del 1¡ corr. mese col quale mi chiede se posso dare il mare per i mesi di luglio e agosto si, ecco la risposta: qui la rena e’ fine e sottile come tutto l’adriatico e il mangiare e’ a crepapelle volontariamente che ce ne stia dentro. Il mio Hotello ha tre camere due matrimoniali a tre posti e una a un letto a due posti. Tutto senza insetti. L’acqua corrente ce la porto io in camera: per i piedi c’e’ una bella vasca in cortile. Per lavare c’e’ mia figlia. Questa e’ la mia casa: la stazione e non altr perche’ il paese e’ lontano quattro chilometri. Per il gabinetto bisogna andare in stazione. I bisogni notturni li porta via mia moglie al mattino. Di divertimento c’e’ il vino e il capostazione che sa giocare bene a scala quaranta, non piove si mangia in pergolato se no dentro. Da vestirsi non ce n’e’ bisogno siamo tutti fra di loro senza scomodo. Noi ci abbiamo la radio appena aggiustata. L.800 per persona esclusi il viaggio le sigarette che le vendo io nel mio Hotello. Si esce di casa, si traversa la l’asfaltata nella quale passa tante belle automobili che vanno e vengono e……e tacchete si e’ sul mare azzurro che spero mi dira’ di si. Saluti affettuosi.
Pasquale Rocco

I segreti per cimentarsi nella narrativa? Molti. In primo luogo la fantasia. Poi un esercizio costante e autocritico. Soprattutto due occhi bene aperti. Contro un pericolo insidioso

Scrivere va di moda, non c’e’ dubbio. Ci provano in moltissimi, letterati o illetterati, tutti disposti a sopportare l’ormai leggendaria fatica nera pur di mandare ai posteri i frutti della propria fantasia. Bene. Ma… chi e’ uno scrittore? Facile dire “uno che scrive”: e’ una definizione troppo generica, che accomuna la segretaria al romanziere senza illustrarne le particolarita’. Meglio cercare lumi sul dizionario. La voce scrittore e’ cosi’ commentata: “Qualifica o distinzione di chi si dedica all’attivita’ letteraria in quanto mosso da un intendimento d’arte”.
Condivisibile o meno, questa spiegazione fa piazza pulita di quasi tutti quelli che scrivono, riservando ai soli romanzieri o affini la legittimita’ del titolo. Pero’ non basta ancora. Con un ultimo sforzo andiamo a scoprire uno dei significati della parola “arte”: “Qualsiasi complesso di tecniche e di metodi concernenti una realizzazione o un’applicazione pratica nel campo dell’operare umano, e particolarmente di una professione o di un mestiere”.

L’artigianato della parola
Proprio cosi’: lo scrittore e’ innanzitutto un tecnico del linguaggio. A lui si richiede essenzialmente un metodo, ossia un’espressione corretta delle proprie idee; sul quantum di arte che va ad arricchirle, solo il lettore potra’ poi esprimersi.
Naturalmente, come ogni tecnico che si rispetti, anche lo scrittore ha i suoi limiti invalicabili. Ricordo che al ginnasio mi fu narrata la celebre storia dello scultore che chiamo’ un calzolaio per chiedergli un parere sulle scarpe di una sua statua. Il ciabattino, dopo avere espresso il suo giudizio sulle calzature, si lascio’ andare a una serie di opinioni non richieste sul resto dell’opera: sul volto, sul vestito, sulle mani e cosi’ via. Lo scultore, risentitosi, lo mise quindi a tacere tuonandogli “Ne supra crepidam, sutor!”: calzolaio, non andare al di la’ della scarpa. Qual e’, dunque, la scarpa dello scrittore?

Stephen King Docet
In un racconto del “re dell’horror” un personaggio trova affissa su una bacheca la seguente massima: “E’ la storia, non colui che la racconta”. Esagerato? Chissa’. Certo non si puo’ levare all’autore l’importanza del suo stile (della sua tecnica); pero’ il lettore e’ tanto piu’ libero di apprezzare un romanzo quanto piu’ lo scrittore avra’ saputo occultare la sua personalita’, magari travasandola nei protagonisti ma mai esibendola con la potenza di una voce narrante. Un po’ come il regista di uno spettacolo teatrale: deve stare dietro le quinte, non e’ lui che il pubblico desidera vedere.
E’ senza dubbio difficile nascondersi mentre si scrive; la redazione di una novella o di un romanzo richiede gia’ da se’ un lungo ritiro dal frastuono della vita (O si vive o si scrive, amava ripetere Pirandello), e l’esaltazione del proprio carattere si riduce spesso all’unica scappatoia per non sentirsi annichiliti; inoltre, il quotidiano connubio con una trama di cui si e’ signori assoluti non gioverebbe neppure all’umilta’ di un santo. Dovendo indicare una via d’uscita, non credo esistano parole migliori di quelle che un altro romanziere americano, John D. MacDonald, scrisse in un suo saggio molti anni fa. Parlando degli elementi costitutivi di una trama, egli sentenzio’ che l’autore e’ libero di inventare tutto cio’ che vuole, ma che deve guardarsi da un rischio capitale: quello delle intrusioni.

Le intrusioni
Torniamo al dizionario. L’intrusione e’ definita come “introduzione forzata o indebita o compiuta di nascosto”. Nel caso del linguaggio letterario, l’intrusione e’ sia forzata che indebita e compiuta di nascosto. Tanto che a volte nemmeno il suo autore se ne accorge. E’ lo stesso MacDonald a fornirci un quadro tipologico, scodellandoci ben quattro categorie di intrusioni. La prima e’ la piu’ facile da evitare, perche’ derivata da un deliberato compiaciment e’ data dalle espressioni ridondanti della serie “mamma mia come sono bravo a scrivere!”. Tipica dei principianti, che non conoscono la differenza fra retorica e sentimento, e’ rimovibile con tanta pazienza e costante esercizio. Chi ha scritto un romanzo sa che di queste intrusioni le bozze preliminari sono infarcite. Con la seconda categoria si va sul sottile. E’ quella delle immagini grottesche, e MacDonald ne ricorda un esempio paradigmatic “I miei occhi scivolarono giu’ per il davanti dell’abito di lei”. Creare immagini e’ certo uno dei preziosismi piu’ difficili, ma un romanzo non e’ un film, non e’ schiavo dell’inquadratura e puo’ spaziare nelle similitudini. Ecco, la similitudine: salvo pochi casi, rappresenta una vera ancora di salvezza contro le intrusioni, proprio perche’ costringe l’autore a staccarsi dal testo e dalle sue tentazioni didascaliche. Una volta superata la trappola dell’enfasi piu’ bieca (vedi sopra), puo’ sortire effetti meravigliosi. Come questo, tratto sempre dalla letteratura americana: “Il suo sguardo scivolo’ su di noi come se i suoi occhi fossero pattini e noi fossimo ghiaccio”. O quest’altro, pure made in USA: “La spiaggia era un lungo nastro bianco, come l’occhieggiare di una sottoveste di seta sotto l’orlo del mare blu”.
Il segreto sta quindi tutto nell’abbandonare la storia: nel rinnegare, rigettare, ripudiare, anche se solo per poche battute, le situazioni e i protagonisti che abbiamo creato. Agli occhi del lettore essi hanno infatti un torto gravissim sono una parte di noi stessi. Una parte accattivante, d’accordo, ma comunque personale, e pertanto lontana dalla pretesa oggettivita’. Procediamo con lo schema di MacDonald. Terzo tipo di intrusioni: le frasi inette. Qui c’e’ un po’ di tutt dagli errori di sintassi (se ne trovano di inimmaginabili) agli svarioni di traduzione, dalle banalita’ contenutistiche al riciclaggio dei luoghi comuni. L’inettitudine letteraria spazia a trecentosessanta gradi, e contempla tutto cio’ che interrompe, spesso senza rimedio, la fluidita’ della lettura. Adagiato sulle onde della prosa come un canoista su un fiume in bonaccia (oddio, e’ un’intrusione questa?), il lettore si ritrova di punto in bianco nel bel mezzo del Niagara, e per salvarsi non ha che da chiudere il libro e non riaprirlo mai piu’. Non si contano, nella mia decennale frequentazione della narrativa, le letture abbandonate per puro istinto di sopravvivenza.
Infine il quarto tipo, quello piu’ odioso e ahime’ piu’ comune: le miniconferenze. Sono frasi, paragrafi o a volte addirittura intere pagine di predicozzi che sfruttano la posizione di debolezza del lettore a scopi proselitistici o persino ideologici. Occultati con approssimazione (in genere vengono messi in bocca a uno dei protagonisti), questi sermoni annullano la funzione artistica del racconto, finalizzandolo a un utilitarismo spudorato. Taccio gli esempi per non far torti a nessuno. Secondo me, comunque, con questo criterio meta’ della letteratura mondiale e quasi tutta quella italiana potrebbero tranquillamente finire nel cestino. Non credo di esagerare.

Lo scrittore e la sua impronta
Scrivere implica dunque una profonda capacita’ di autocritica. Per paradossale che sembri, il letterato ha anzi piu’ di ogni altro il dovere di rifugiarsi tra i sipari del proprio io, e di non svelarsi se non per il mero retaggio tecnico. Si potrebbe quasi dire che la vera prova del successo di uno scrittore non venga dai suoi best seller ma dal grado di notorieta’ che ha saputo conquistarsi a colpi di stile.
Un bravo artista sa farsi riconoscere all’impronta. Chiunque saprebbe distinguere un quadro del Botticelli o del Caravaggio alla prima occhiata: si puo’ dire lo stesso dei romanzieri? Mah! Intanto, un illustre precedente esiste gia’, e risale al secolo scorso. Johann Wolfgang Goethe, l’indimenticato autore di tanti capisaldi del romanticismo mitteleuropeo, si tolse lo sfizio di partecipare sotto falso nome a un concorso dal tema ambizios “Scrivere come Goethe”. Arrivo’ secondo. Niente male, davvero.

Fate come Sabrina Servucci: scrivete i vostri pensieri a ruota libera a: “Comunico” – la palestra dei lettori, p.le Aquileia 8 – 20144 Milano, o inviate un fax al n. 02 4981021

Come? Scrivere. Una fatica nera… ma se e’ tra le prime cose che ho imparato nella vita e l’unica che mi da’ la sensazione di esistere e di esprimermi naturalmente. Ho imparato a quattro anni e non ho piu’ smesso, grafomane che non sono altro. Scrivo per gioco, per piacere, per lavoro (con piacere), scrivo per amore. E allora… anche per me fatica nera? A volte, e’ vero, forse lo e’ stata; ma prestiamo orecchie e attenzione ai richiami piu’ recenti dell’istinto e del cuore. Sono innamorata di Maffei. Ed ho respirato l’aria dei suoi pensieri, che evanescenti e leggeri si liberavano tra l’umidita’ del lago. Le sue analisi circa i comunicatori del terzo millennio (ai quali, senza presunzione, ho avuto ulteriore conferma di appartenere) e i nuovi rapporti interpersonali, sono le stesse che si agitano nella mia testa e non avrebbero potuto essere espresse con maggiore cura. Quale rapimento, e gioia, ed emozione si prova a leggere parole che condividi cosi’ completamente, che avresti potuto scrivere tu, lo senti, con lo stesso fluente susseguirsi di verita’, conosciute personalmente tramite l’esperienza.
Ma davvero sarei riuscita a comunicare con quella stessa tranquillita’ orientale, con quella consapevolezza senza conflitti, senza rabbia? Al coccolone ci sono vicina, al lago non ancora. Forse la mia e’ la tipica euforia della depressione, momentanea. Quale smarrimento e tristezza ti stringe lo stomaco entrando ogni giorno in un’azienda che e’ ancora nel primo millennio e il cui “capo” ti lascia sulla scrivania una copia di COMUNICO con un bigliettino che dice “se interessa senno’ buttare”. Scontato che non ha neanche sbirciato dentro, non puo’ interessarlo, e’ su un altro pianeta e poi sono io che mi occupo di marketing e comunicazione, a lui non serve! Quale grave miopia. E a questo punto, tra la gioia di sapere che non sono sola e la solitudine di passare i miei giorni in un posto sbagliato, la fatica nera consiste nel decidere se lasciarmi andare o no, se prendere in mano un foglio, il caro, vecchio amico foglio, e animare di parole la vostra pagina bianca, scrivendo a ruota libera a COMUNICO, follemente innamorata dell’idea di essere tra voi. O se restare nel mio angolino, gioire poco per non soffrire troppo, non volare con l’anima della fantasia e restare a chiedersi: ma a che cosa serve poi essere avanti? Nel dubbio, sorrido all’idea di vedere pubblicate queste parole sul numero 3 che mi sara’ recapitato dal capo con il solito bigliettino. Chiedo infinite scuse gia’ da ora se dovessi usarlo per veicolare le mie dimissioni sbattendolo violentemente e affettuosamente sulla sua testa vuota.

In alto i cuori.

Un getto d’ansia. Un brivido che corre da un emisfero all’altro. Sempre lo stesso davanti al maledetto foglio bianco. Bianco come la neve del Bleiss, la grande pista del Tonale. Mi vedo li’, in cima, proprio sotto la vetta, al cancelletto di partenza di uno slalom speciale. Davanti ho i paletti, le cunette, le lastre di ghiaccio, gli avvallamenti, la neve che diventa “pappa” all’improvviso, i mucchi freschi traditori. Tutto da ammortizzare su un paio di gambe allenate, anche, ma senza la stoffa di Stemmark.
C’e’ tutto questo nel foglio bianco davanti a me. Il computer ha ridotto un po’ l’ansia che mi prendeva allo stomaco quando usavo la carta: li’, l’incedere rumoroso della macchina per scrivere, dava un senso di definitiva solennita’ alle parole. Se sbagliavo dovevo gettare il foglio. Non c’era bianchetto che potesse cancellare “l’errore”, quello che trapassava la carta e s’insinuava nella mente, continuamente rammentato dalla cancellatura. Lo ammetto, la nevrosi si specchia sul mio foglio quando scrivo. E mi succede tutti i giorni, tutte le settimane, ogniqualvolta debbo gettare l’inchiostro su un’idea, un’esperienza vissuta, una cronaca, un racconto. La tecnica aiuta, grazie al cielo. Ma non e’ tutto. Anzi. Sapere che nelle prime dieci righe tipografiche di un articolo ci deve essere tutto il pezzo, e’ sapere che per quelle infinite dieci righe devi dare il massimo. In notizie, certo. Ma anche in emozioni. Perche’ oggi non basta la notizia.
Oggi ti e’ richiesto di far vibrare il lettore. Devi fare passare nelle parole quello che tu hai vissuto in prima persona nell’intervistare l’uomo miracolato a Lourdes, la donna che ha perso il figlio in Bosnia o semplicemente nel riportare le ultime scorrerie della principessa di turno. Ogni notizia ha e mantiene una dignita’ assoluta al di la’ del tema: la dignita’ che ha ogni aspetto e ogni attimo consapevole nella giornata di ogni singolo uomo sulla Terra. Il foglio bianco che ho davanti mi richiede questo ogni volta. Come faro’ a riportare con chiarezza il pensiero astruso e difficile di quel medico senza snaturarne le dichiarazioni, ma rispettando l’italiano e il lettore? Come tradurre lo strazio dei genitori che hanno visto morire di Aids l’unico figlio, rispettando la loro dignita’? Senza sfruttarne la storia per commuovere fino alla nausea, ma comunicando il piu’ grande dolore del mondo? Qui, piu’ che la tecnica, serve la preghiera, la meditazione. Perche’ e’ cosi’: le parole impresse sullo schermo di un computer, mettono nero su bianco cio’ che ognuno e’ nel profondo. Alla fine, quando nessun manuale puo’ aiutarti, devi lasciare parlare il cuore. Ed e’ una fatica nera.
Qualche volta ci riesci, qualche volta no. In questo slalom specialissimo, spesso senti le ginocchia che non rispondono piu’. Vorresti fare uscire parole onomatopeiche, che disegnassero col suono il turbinio che ti pervade. Vorresti costruire frasi che ondeggiano con il fluire dell’energia, per accompagnare il lettore sulle spiagge di cio’ che ti sembra vero… Finche’, finalmente, arrivi alla fine. Il bianco del foglio elettronico si riempie di righe di nero. Visto da lontano somiglia a un codice a barre: la penna elettronica che sta in fondo agli occhi di ciascuno ne dara’ un’interpretazione differente. E cosi’, quella che gia’ di per se’ e’ una faccia della verita’, verra’ letta attraverso le lenti dell’esperienza di ciascun lettore. In una Babele di emozioni, di sensazioni e di idee, rielaborate dalla cultura, dalla religione, dal vissuto. Pero’… Pero’ ti senti bene. Proprio come in fondo a una pista da sci. O come quando senti di dover dire a una donna “Ti amo” e non hai pace finche’ non trovi il coraggio. Anche se hai dato una parte di te su un foglio che domani diventera’ carta per il canarino della vicina. Tanta fatica per nulla? N il canarino ringrazia.

Quando si prepara una conferenza, un intervento o la presentazione di un progetto per un cliente, sia di mettere in gioco i propri talenti, uscendo allo scoperto, offrendosi agli apprezzamenti o alle critiche del prossimo. Per i Greci il talento era una moneta di grande valore, dunque denaro che andava speso per acquistare qualche cosa, per migliorare la propria posizione, per acquisire del prestigio. Per estensione, il termine assume il significato di capacita’ e doti intellettuali. Esibire i propri talenti significa pertanto operare un’azione cosi’ intima da mettere alla prova se stessi. Il bisogno di scrivere e’ un virus pernicioso che quando prende turba, e dentro fa sentire come tarantolati. Esiste pero’ un anticorp il talento, appunto. E’ questo che permette di affrontare il mostro con qualche pallida speranza di batterlo, di acquietare l’intimo spasmo, come fosse tosse che nemmeno di notte si placa e non lascia dormire.
Il mostro e’ la pagina vuota. Quando si scrive non sempre si ha a che fare con l’affollarsi disordinato dei concetti nella testa, si rincorre un’idea, conturbante ed evanescente come i veli di Sheherazade, temendo che essa sfugga, a volte come Teresa dietro alla farfalla, altre volte come naufrago che si lascia avvolgere dal Mare Amniotico che sfoca i contorni e mischia le immagini, disposti a scendere a patti con il Demone della Scrittura in cambio dell’eco lontana di un porto che prometta protezione e quiete. Anche il compositore, quando e’ in preda dei suoni, e’ un indemoniat lo e’ quando tenta di mettere insieme le armonie, di dare un senso al contrappunto, di amalgamare le voci dell’orchestra come fossero i colori del pittore quando ne ha la tavolozza piena e… la tela e’ tragicamente vuota. Strawinskij era solito affermare che il lavoro intellettuale e’ paragonabile a quello di un calzolaio che da’ forma alla tomaia, prepara la suola, meticolosamente le cuce insieme, ritaglia il cuoio e la pelle in eccesso, ritocca qua e la’ finche’ l’opera e’ pronta. Scrivere e’ la stessa cosa: pensate al Manzoni, che stese il “Fermo e Lucia” per poi correggerlo prima ne “Gli Sposi Promessi” e, dopo tanto sciacquar panni in Arno, nel definitivo “I Promessi Sposi”. Non sempre, pero’, si ha a disposizione il tempo che si vorrebbe per ritoccare e rifinire. Torno a chi deve preparare una conferenza o un intervento, penso al giornalista che deve scrivere il pezzo per il giorno seguente; ci vuole mestiere… ma anche un bel geniaccio!
Rossini scrisse “Il Barbiere di Siviglia” in tredici giorni. Non per quella sua famosa indolenza; ci fu costretto, per mantenere fede all’impegno preso con il teatro Argentina di Roma, dove l’opera sarebbe stata rappresentata per la prima volta il 20 febbraio 1816. Il 15 dicembre 1815, quando firmo’ il contratto, non era ancora stato scelto il soggetto dell’opera. A proposito del “Barbiere”, va detto che esistevano degli artifici che il compositore usava per fare piu’ alla svelta. Alcuni spunti, idee musicali frutto di ispirazioni pregresse, l’autore le aveva belle e pronte, conservate nel cassett bastava solo svilupparle (vedi sempre, comunque, alla voce talento). Poi c’era l’Aria di Sorbetto, cosiddetta perche’ veniva cantata mentre la gente usciva dal teatro per degustare un gelato prima di rientrare: quasi nessuno l’ascoltava. Molte parti dell’opera, di scarso valore musicale, venivano solo abbozzate e improvvisate poi al momento. Servivano solo a dare un senso alla trama della storia. Scritta la Sinfonia iniziale e le Arie importanti, che il pubblico invece ascoltava nel piu’ religioso silenzio, il gioco era fatto. Cosi’ in parte si spiega come Rossini riusci’ a comporre in cosi’ poco tempo. Volendo scendere a livelli piu’ normali, ritengo che lo scrivere sia comunque un atto di creativita’ al quale si puo’ giungere anche senza essere baciati da una divina ispirazione: scrivere e’ comunicare, e comunicare e’ riuscire a far capire agli altri cio’ che intimamente si sente o si pensa. L’importante e’ cercare di esprimere qualche cosa che serva a chi legge. E per questo ci vuole una buona dose di umilta’, di disciplina e di onesto impegno.

Sono cresciuta con i nonni materni nella piu’ bella citta’ veneta, rigorosamente educata per appartenere ad una societa’ elitaria e sofisticata che forse gia’ allora non esisteva piu’, e di certo non ho mai trovato in seguito. Ho appreso quindi, durante l’infanzia, una disciplina fatta di regole, principi e modelli di comportamento che si sono rivelati inadeguati alla realta’ della mia vita, ma mi hanno offerto un grande vantaggio nei confronti dei piu’ formidabili mezzi di realizzazione di se stessi: parlare e scrivere. In proposito, la regola base della mia inflessibile brillantissima nonna ungherese era semplice, ma tassativa: si deve respirare tre volte prima di parlare e rileggere tre volte quello che si scrive. Infatti, l’espressione del proprio pensiero comporta una grande responsabilita’ nei confronti di chi ci ascolta e ci legge, perche’ lo sollecita – magari suo malgrado – ad entrare in relazione con noi e deve quindi rispettarne la sensibilita’ e la personalita’.
Di conseguenza, per me c’era anche l’obbligo di parlare solo se interrogata esplicitamente, e solo sull’argomento trattato da chi mi rivolgeva la parola; insieme a quello di scrivere solo a penna, per ricordare sempre che scrivendo si “ferma” sulla carta il proprio pensiero in modo definitivo, e che senza la mediazione della propria comunicativa (che spesso rimedia a concetti poco felici) si puo’ soltanto confidare di essere letti nel “momento giusto”. Considerare ogni parola un bene prezioso da spendere con attenzione e parsimonia e’ stato per me durante l’infanzia un grande impegno ed una grande fatica, ma questo ha trasformato – per merito della nonna – ogni opportunita’ di esprimere il mio pensiero in una gran festa ed un grande cimento. Tuttora seguo la regola dei tre respiri e le tre riletture, nei miei rapporti personali e nella professione che ho scelt parlare e scrivere “bene” – cioe’ facendo intimamente interagire i contenuti e la forma – e’ un dovere nei confronti del prossimo, una soddisfazione personale, un vantaggio per stabilire solidi e duraturi rapporti interpersonali… ed una delle maggiori armi di seduzione.

C’e’ stato un momento della mia vita lavorativa, quando ero un rampante marketing manager, in cui mi capitava spesso di dover scrivere. Scrivere per delle brochure, scrivere per delle comunicazioni, per delle lettere alle forze di vendita, per dei discorsi in riunioni, per delle presentazioni. Ebbene io mi impegnavo molto, mi sembrava di fare delle belle cose. Pero’ tutte le volte che presentavo l’elaborato al mio capo, tutte le volte aveva qualche cosa da correggermi. Piu’ succedeva cosi’, piu’ mi impegnavo. E mi infuriavo.
Ma tutte le volte mi correggeva qualcosa. E la rabbia maggiore e’ che, a freddo, dovevo riconoscere che la correzione migliorava il testo. Ero arrivato al punto di convincermi che era giusto che lui fosse il mio capo, perche’ era piu’ bravo di me. Persino in una cosa nella quale io mi consideravo brav lo scrivere. Poi ho riflettuto. E mi sono reso conto che un conto e’ realizzare dal niente, un conto e’ correggere.
Quando ci si trova davanti a un foglio bianco, con tante idee in testa, con la necessita’ di prendere delle decisioni di impostazione, questo o quel tono, questa o quella sfumatura, questo o quel linguaggio, con la certezza che qualche cosa di diverso, qualsiasi cosa, potrebbe comunque essere fatta, ebbene, quando ci si trova davanti a quel foglio bianco ci si puo’ sentire smarriti. E’ vero, con un grande potenziale creativo, ma con un immenso senso di vuoto. Questo capita quando si deve scrivere su un foglio bianco. Quando si corregge, la musica cambia. Se si condivide l’impostazione del testo, il tono, le sfumature, il linguaggio, se insomma lo scritto va bene, ci si puo’ permettere il lusso di limare, di perfezionare, di ritoccare. Si puo’ fare la bella figura di correggere. Bella forza!