per una nuova cultura della comunicazione

Rivista Comunico - Numero 1

Parole parole parole

Quando un personaggio come Claudio Maffei ti dice che “ha voglia” di far nascere un giornale e’ naturale starlo ad ascoltare con interesse. Se poi il giornale tratta di cultura della comunicazione e’ naturale che Deus si proponga come editore. Ecco, cosi’, secondo natura, nasce “Comunico”. Una testata che si affianca a “dm&c”, la integra e la completa, per perseguire l’obiettivo che l’Editore si e’ post contribuire ad un corretto sviluppo della cultura della comunicazione. Claudio Maffei (direttore di “Comunico”) e Ugo Canonici (direttore di “dm&c”), due professionisti ben noti nel mondo della comunicazione, naturalmente si avvarranno anche del “braccio operativo” del Club C3 per affiancare alla carta stampata attivita’ e operativita’ verso chi agisce in questo settore. Bene, e’ naturale che ogni volta che nasce un nuovo giornale si debba far festa e ci si debba fare gli auguri. L’Editore augura a Claudio Maffei, che gestira’ “Comunico” in assoluta liberta’ e autonomia, di riuscire a raggiungere tutti gli obiettivi che si e’ posto. E ai lettori di trovare sin da subito motivi sufficienti per iniziare la raccolta di un giornale originale e interessante.

Il 22 giugno 1995 ho avuto un coccolone. Si’, camminavo per strada, ho visto tutto nero e…mi sono risvegliato all’ospedale San Paolo. Dieci giorni di analisi, dalla TAC alla Risonanza Magnetica e alla fine… nessuna diagnosi, nessuna terapia. “Si dia una calmata – mi hanno detto – lei ha tirato troppo la corda, elimini le fonti di stress”. Ho pensato, per qualche giorno, agli ultimi vent’anni della mia vita. Bella carriera direbbe qualcuno, ma a che prezzo?
Verso la meta’ di luglio ho comunicato, a casa e in ufficio, che sarei andato in vacanza. Da solo. Maremma Toscana, Argentario, Dolomiti, Lago Maggiore a leggere e riflettere. In settembre, ho deciso di restare ad abitare sul lago. Dove andare a Milano? In un residence? No, meglio rimanere qui, e… cambiare vita. Piano piano ho trovato un lavoro a quasi tutti i miei collaboratori e sono venuto a Milano sempre piu’ di rado, col treno, col pullman… dalla carriera alla corriera. Sono milanese da piu’ di 10 generazioni, ma non ho rimpianti. Non rimpiango una citta’ che continua ad imbruttire, ad essere sporca, a pensare solo ai soldi, al rampantismo anni 80, ad essere frenetica, ad avere ritmi inumani, senza capire che, in questi ultimi anni, il mondo sta cambiando.
Ho scelto la qualita’ della vita. Non trattero’ piu’ con gli arroganti, con quelli che hanno sempre fretta, che fann “dica, dica…” correndo giu’ dalle scale, che firmano e rileggono lettere mentre stai parlando con loro, con quelli ai quali squilla sempre il telefonino. Ho scelto una vita SLOW, (un grazie all’Arcigola per tutto quello che fa e che dice da anni) apprezzando ogni giorno di piu’ la provincia: sotto tono, lenta, tranquilla, di basso profilo.
Perche’ comunico? Perche’ aggiungere altra carta alla carta che giornalmente viene prodotta? Perche’ c’e’ in giro un grande bisogno di cultura!
Su COMUNICO si fara’ dibattito, si lanceranno idee creative, idee spregiudicate, operazioni inconsuete, si trattera’ del cambiamento, si fara’ la “cultura della comunicazione” che le obsolete e corporative associazioni professionali non sanno fare.
COMUNICO sara’ caratterizzato dal piu’ assoluto non conformismo. Sara’ la voce di chiunque voglia fare piazza pulita di tutte le balle della comunicazione globale, integrata e macrobiotica, di tutte le cose e le persone noiose, dei personalismi che hanno diviso il mondo della comunicazione in mille piccole associazioni. Ci sono momenti nella storia di una professione, di un paese, dell’umanita’, in cui gli interessi comuni devono prevalere su quelli di parte. Oggi stiamo vivendo uno di questi momenti, anche se fingiamo di non accorgercene. Ma la felicita’ di un popolo si vede da quanto la gente e’ messa in grado di immaginare, di sognare, di provare emozioni. Oggi non si sogna molto, nemmeno nel mondo della comunicazione professionale, un mondo piuttosto triste, burocratizzato, privo di creativita’, nel quale l’accesso e’ sempre piu’ difficile.
COMUNICO nasce per aprire, per liberare, per mettere in relazione, per scambiarsi in liberta’ idee, esperienze, scelte di vita; sara’ uno specchio che riflette e aiuta a riflettere chiunque non abbia paura di confrontarsi in liberta’.

Signorina veniamo noi con questa mia addirvi che, scusate se sono poche, ma settecento mila lire noi ci fanno, specie che quest’anno c’e’ stato una grande moria delle vacche, come voi ben sapete. Questa moneta servono a che voi vi consolate dai dispiacere che avrete perche’ dovrete lasciare nostro nipote, che gli zii, che siamo noi medesimo di persona, vi mandano questo perche’ il giovanotto e’ studente che studia, che si deve prendere una Laura, che deve tenere la testa al solito posto, cioe’ sul collo.
Salutandovi indistintamente i fratelli Caponi, che siamo noi (che siamo noi, i fratelli Caponi) in data odierna.” Era il 1956 quando Sua Altezza Antonio de’ Curtis, Principe di Bisanzio, in arte Toto’, detto’ a Peppino la lettera alla Malafemmena. Avevo quattro anni, ma fin da allora rimasi fortemente colpito da questo tipo di comicita’. Toto’ era intraducibile, la maggior parte dei suoi film non e’ stata doppiata ne’ sottotitolata in altre lingue. Come fare a trasporre in inglese frasi quali: “Ma cosa credete che io sia qua a parlare con Chicche e Sia?” oppure “Cristoforo Colombo ebbe i natali a Genova e la pasqua a Napoli, quindi fu parte genovese e parte …nopeo”. Credo di essere stato talmente influenzato da questo genere di comicita’, che oggi definiremmo demenziale, da passare la vita intera a giocare con le parole. Si’, Luigi Barzini Jr. avrebbe detto “fare il giornalista e’ molto duro, ma e’ pur sempre meglio che lavorare”. Tuttavia giocare con le parole e’ stato per me una professione per oltre 20 anni. Giocare con le parole parlate e con le parole scritte, e oggi, iniziando a dirigere questa rivista, ho pensato di dedicare il primo numero a questa mia passione. Comunico continuera’, in modo tematico, quasi monografico, ad approfondire temi legati al comunicare umano quali l’ascolto, l’immagine visiva, il gusto, il tatto e cosi’ via. L’unico limite che ci porremo e’ quello della nostra fantasia e della nostra creativita’.
Buona lettura!

Scrivere nell’eta’ dell’informatica

Punto prim il modello di scrittura imparato a scuola fa a pugni con le necessita’ della comunicazione aziendale. Punto second la psicologia sociale, la linguistica e l’informatica hanno trovato strumenti e metodi che ci permettono di controllare l’efficacia dei testi con un’affidabilita’ paragonabile ai controlli di qualita’ dei prodotti. Queste due annotazioni devono naturalmente essere dimostrate, ma se risultassero vere ci costringerebbero a impadronirci delle nuove tecniche della comunicazione scritta. Andiamo con ordine e cominciamo a ragionare sullo stile di scrittura che abbiamo imparato a scuola.
L’ordinamento della media superiore italiana e’ sostanzialmente ancora quello dettato da Giovanni Gentile. Esso prescrive che gli alunni siano gradualmente portati a scrivere in modo “vieppiu’ complesso”.
La particolare storia della nostra lingua giustificava il ricorso ad un modello aulico poiche’, ai tempi di Gentile, l’italiano era una lingua prevalentemente scritta, poco legata alle parole usate dalla maggioranza degli italiani (1).
Del resto Gentile non era sciocco, e sapeva quel che voleva. In sintonia con il clima politico e sociale del tempo, pensava che, al di la’ delle parole d’ordine, non fosse molto necessaria una scrittura che favorisse la comprensione e la partecipazione dei cittadini. Poiche’ tutti, andando a scuola, abbiamo piu’ o meno assimilato quel modello, nello scrivere sentiamo come una mano interiore che ci allontana dalla frase semplice e chiara, dalla parola comunemente usata. Sentiamo quello che Calvino chiamava il “terrore semantico”, la paura cioe’ di usare le parole e i costrutti densi di significato; la paura che fa scrivere “attivare l’accensione dell’impianto termico”, al posto di “accendere la caldaia” (2) .
Un altro vizio diffuso nelle scuole e’ quello d’insegnare a scrivere, avendo di solito come pubblico esclusivo l’insegnante, una persona che per definizione conosce la materia. Quando eravamo sui banchi di scuola, scrivevamo infatti principalmente per dimostrare che anche noi avevamo imparato qualcosa.
Nella realta’ aziendale la prospettiva cambia radicalmente. Scriviamo per comunicare ad altri qualcosa che ancora non sanno, o di cui non sono ancora convinti. La ragione dello scrivere non e’ piu’ esibire il nostro sapere, ma trasmettere le nostre idee, i nostri progetti, le nostre domande, i nostri comandi. La differenza e’ decisiva per l’ordine dei discorso, per la costruzione sintattica, per le scelte lessicali, per la lunghezza dei testi. Forse piu’ difficile e’ chiarire il secondo punto, vale a dire la possibilita’ di misurare la qualita’ della scrittura. Questo perche’, almeno in Italia, il discorso e’ relativamente nuovo a livello scientifico e quasi ignorato nella pratica della scrittura aziendale.

Un coefficiente di comprensione
Negli Stati Uniti invece l’argomento fu preso in esame fin dagli anni ’20. Inizialmente con lo scopo di identificare criteri obiettivi e verificabili per scrivere testi scolastici facilmente comprensibili.
Dopo alcuni tentativi non perfettamente riusciti, nel 1948 Rudolph Flesch mise a punto una formula di tipo matematico, sostanzialmente basata sulla lunghezza delle frasi e delle parole, che permetteva una previsione di leggibilita’, intesa come possibilita’ di comprensione.
La formula ha resistito alla prova del tempo e nel 1972 Roberto Vacca introdusse un coefficiente per adattarla alle peculiarita’ dell’italiano. Nacque cosi’, con il nome dei due coautori, l’indice Flesch – Vacca, che fino a non molto tempo fa era lo strumento piu’ usato in Italia per verificare la leggibilita’ di un testo. In realta’ Vacca modifico’ due volte il suo coefficiente, a dimostrazione della difficolta’ di adattare lo stesso abito a corpi linguistici diversi. Tra il 1987 e il 1989, il Gruppo universitario linguistico pedagogico (Gulp), presso l’Universita’ La Sapienza di Roma, studio’ con metodo scientifico la leggibilita’ della lingua italiana, sottoponendo un gran numero di testi a ragazzi delle medie inferiori. Il risultato di questo paziente lavoro e’ stato l’indice Gulpease (3). In conclusione oggi abbiamo uno strumento, calibrato e testato sull’italiano, che ci permette di predire con ragionevole certezza la leggibilita’ di un scritto.
Inoltre, il Centro di calcolo dell’Universita’ di Pisa ha compilato il Vocabolario di base della lingua italiana (VdB), attraverso lo spoglio di una massa enorme di testi e con interviste. L’opera elenca le parole piu’ usate, e quindi piu’ conosciute, suddividendole in tre gruppi: vocabolario fondamentale (le 2 mila parole che certamente tutti conoscono), vocabolario d’alto uso e vocabolario d’alta disponibilita’ (4).
Gulpease e VdB sono due strumenti che funzionano, come sanno i non molti che li usano. Ormai sono anche di rapido impiego poiche’ sono disponibili programmi informatici che permettono di calcolare in modo automatico l’indice Gulpease e di confrontare il testo con il VdB; altri software sono in preparazione ed e’ ragionevole prevedere programmi sempre piu’ sofisticati e pratici (5). Anche gli studi di psicologia sociale hanno elaborato, ed empiricamente dimostrato, la validita’ di alcuni accorgimenti che rendono uno scritto piu’ facile e piu’ persuasivo. e’ curioso notare che tali tecniche, sviluppatesi soprattutto in America (e dove se no?) abbiano alla fine riscoperto i precetti della retorica classica, in modo particolare per quanto riguarda l’ordine del discorso.

La riscoperta della retorica
La retorica, appunto. Forse e’ venuto il momento di rivalutare questa parola, che in realta’ altro non indica che l’arte di parlare (e scrivere) bene, vale a dire in modo comprensibile, memorizzabile e persuasivo. Forse dovremmo parlare di una nuova retorica, piu’ agile di quella classica, piu’ scientifica e naturalmente definita rispetto ai generi della letteratura aziendale, che non sono l’orazione, ma la lettera agli azionisti, la relazione, il promemoria, il verbale, il comunicato stampa e quant’altro. Nella nuova retorica trovano posto altre cose, concettualmente minori, ma in pratica rilevanti, come le convenzioni di editing, o quelle che potremo chiamare questioni di galateo, non secondarie in una societa’ che cambia e che marchia come inesorabilmente out formule fino a ieri ortodosse, o apre nuovi problemi quali la discriminazione sessista della lingua (come la mettiamo con Rosy Bindi: ministra? ministro? o ministressa?). In un breve articolo non si possono richiamare, neppure per titoli, tutti i risvolti della scrittura per il lavoro; qui ho fatto solo una rapida esemplificazione di alcuni argomenti, piu’ o meno importanti, solo per concludere che la nuova retorica si sostanzia di un corpo ormai ragguardevole di informazioni che sono, o sconosciute, o mal conosciute. La scuola, infatti, come abbiamo visto, non insegna sempre le cose giuste.

Centrare l’obiettivo informare, comunicare, persuadere
E l’esperienza della pratica aziendale? Anch’essa puo’ sbagliare. Spesso la paura di cambiare trascina nel tempo, incrostandole, abitudini di scrittura che allontanano sempre piu’ la prosa delle imprese dai suoi obiettivi che sono informare, comunicare, persuadere. Quando ci addentriamo nelle nuove tecniche per scrivere chiaro, scopriamo che ci tocca cambiare inveterate abitudini; a volte ci accorgiamo che e’ anche necessario un esercizio d’umilta’. In alcuni casi, infatti, particolarmente quando il testo si rivolge a pubblici indifferenziati, scrivere chiaro significa rinunciare a quel periodare “vieppiu’ complesso” che fu dura acquisizione e vanto del nostro percorso scolastico. In conclusione, se scrivere una relazione al presidente o una lettera al cliente non e’ (ancora? fortunatamente?) una scienza esatta, e’ tuttavia vero che e’ gia’ cresciuto un insieme abbastanza consolidato d’indicazioni, suggerimenti e trucchi del mestiere che cambiano abitudini acquisite, ma nello stesso tempo ci promettono una maggiore probabilita’ di persuadere e di essere capiti.
Infatti, la qualita’ della scrittura e’ oggi misurabile non solo con i criteri nobili e tuttavia incerti del gusto, ma anche con parametri scientifici. A pensarci bene e’ una novita’ sconvolgente.

(1) De Mauro Tullio, Storia Linguistica dell’Italia Unita, Laterza, Bari, 1976.
(2) Calvino Italo, L’Antilingua, in “Una pietra sopra, discorsi di letteratura e societa’”, Einaudi, Torino, 1980. (3) Lucisano Pietro, Misurare le parole, Kepos Edizioni, Roma,1993.
(4) De Mauro Tullio, Guida all’uso delle parole, Editori Riuniti, Roma, 11ma edizione, 1991.
(5) Programma Errata corrige/2, edito da Expert System, direzione Diamante

Grammelot e’ un termine di origine francese coniato dai Comici dell’Arte e maccheronizzato dai veneti che dicevano gramlotto. E’ una parola priva di significato intrinseco, un papocchio di suoni che riescono usualmente ad evocare il senso del discorso. Grammelot significa, appunto, gioco onomatopeico di un discorso, articolato arbitrariamente, ma che e’ in grado di trasmettere, con l’apporto di gesti, ritmi e sonorita’ particolari, un intero discorso compiuto.
Dario Fo, grande protagonista di Grammelot – indimenticabili le sue interpretazioni del cortigiano francese e dell’avvocato inglese – dice che in questa chiave e’ possibile improvvisare, meglio, articolare, discorsi di tutti i tipi riferiti a strutture lessicali le piu’ diverse. La prima forma di Grammelot la eseguono senz’altro i bambini con la loro incredibile fantasia quando fingono di fare discorsi chiarissimi con farfugliamenti straordinari (che fra di loro intendono perfettamente).
Ho assistito – dice Fo – al dialogo tra un bambino napoletano e un bambino inglese e ho notato che entrambi non esitavano un attimo. Per comunicare non usavano la propria lingua ma un’altra inventata, appunto il Grammelot. Il napoletano fingeva di parlare in inglese e l’altro fingeva di parlare in italiano meridionalizzato. Si intendevano benissimo. Attraverso gesti, cadenze e farfugliamenti vari, avevano costruito un loro codice. A nostra volta, possiamo parlare tutti i Grammelot: quello inglese, francese, tedesco, spagnolo, napoletano, veneto, romanesco, proprio tutti! Naturalmente per riuscirci occorre un minimo di applicazione, di studio e soprattutto tanta pratica.
Devo confessare – continua Fo – che uno dei miei sogni segreti e’ quello di riuscire, un giorno, ad entrare in televisione, sedermi al posto dello speaker che da’ le notizie del telegiornale e parlare, per tutto lo spazio della trasmissione, in Grammelot… scommetto che nessuno se ne accorgerebbe:
Oggi traneguale per indotto – ne consebase al tresico imparte montecitorio per altro non sparetico ndorgio, pur secministri e cognando, insto allego’ sigrede al presidente interim prepaltico, non manifolo di sesto, dissest Clinton, si puo’ intervento e lo stava intemario anche nale perdipiu’ albato – senza stipuo’ lagno en sogno – la – prima di estabio in Prodi e il suo masso nato per illuco saltrusio ma non sempre. Si sa, albatro spertico, rimo sa medesimo non vechianante e, anche, sortomane del Pontefice in diverica lonibata visito opus dei.
Per una buona mezz’ora, si potrebbe continuare imperterriti.

* Le citazioni e il brano in Grammelot sono tratte da: Dario Fo, Manuale Minimo dell’Attore – Einaudi

Queste pagine, bianche in origine, non hanno resistito all’invito di Antonio Lagreca. Esi sono animate di parole. Saranno sempre aperte ai lettori desiderosi di comunicare

Le ciliege, la cattedrale e i dintorni
U n pomeriggio di qualche giorno fa mi hai letto, per telefono, la tua “Scelta di vita”. Mi sono commosso e ti ho pregato di spedirmi copia del testo. Oggi, mentre tornavo a casa, ho continuato a riflettere sulle tue frasi. Dal fruttivendolo ho comperato un paio di chili di ciliege.Belle, rosse. Nella cassetta delle lettere ho trovato la tua copia. Ricordo di essermi seduto al tavolo della cucina. Una parola tira una ciliegia ed una ciliegia tira una frase. Centoventi noccioli, striati di rosso, in un angolo del tavolo, ed in fondo alla lettera il tuo post-scriptum “pensa, pensa…ma non commuoverti troppo!”
Il vecchio nodo alla gola si e’ rinnovato, simultaneo. Poi, un crampo alla gola, quindi un nodo allo stomaco e, subito dopo, un crampo alla pancia. Sono corso in bagno. Mia nonna, buonanima, mi raccontava che la nonna di sua madre raccontava spesso che la madre di sua nonna raccontava degli effetti diuretici delle ciliege, specie se rosse, e poi che la fonte di tutto il sapere si trova al centro di un piccolo chiostro all’interno di una meravigliosa cattedrale, al centro di una fantastica oasi in mezzo al deserto. e’ li’ che abitano i depositari di ogni scibile e li’, da mattina a sera, si scambiano, tra loro, le doti possedute.
Quando poi la gola riarde per l’uso, si abbeverano un attimo alla fonte e tornano a riscambiarsi tra loro le doti ripossedute. E cosi’ e’ da sempre, perche’ pare che raccontasse cosi’ anche la nonna della madre della madre della nonna di mia nonna. In mezzo a tutte queste generazioni, a dir tutta la verita’, era affiorato anche – ma grazie a Dio solo per pochi anni – qualche piccolo malinteso. Una sorella di qualche nonna della madre di qualche nonna, forse una notte di tardo autunno e forse dopo i fumi della vendemmia, in mezzo all’aia, si era tolta le vesti ed aveva gridato qualche frase sconnessa sul deserto che era intorno e che era li’, che era li’ il pianeta, e no che era solo quello del mezzo, e che la sabbia e’ vita, ed e’ il costume, e che il vento la cangia e che si rinnova con le idee, e che e’ cultura come e’ la realta’.

Gli ufficiali e gli altri
Mi sono sdraiato sul letto, in camera mia.
Alle tre del pomeriggio, come ogni pomeriggio d’estate, nella campagna intorno alla mia casa, a poche centinaia di metri dal campanile del Duomo, come in tutte le piccole citta’, le cicale ed i grilli fanno ciich…ciich…ciich, criih..criih…criih.. e, nello stesso momento, il caldo cresce opprimente e non ci sono piu’ rumori d’asfalto ed i rumori sono ciich…ciich,…criih…criih… e le palpebre di tutti, al caldo, a poche centinaia di metri, al ciich,..criih.. si appesantiscono e…
Comunico e’ il periodico tematico le cui pagine sono la piazza d’armi dove e’ aperto il confronto. Compaiono gli Ufficiali. Arrivano dalla Cattedrale. Sono alti e belli e coraggiosi: come quando stanno in televisione. Pubblicano i loro stendardi e lo sventolio turbina ed allontana tutto all’intorno. e’ acqua tumultuosa che sgorga direttamente dalla fonte del sapere: che a nessun altro e’ dato sapere. Per un attimo c’e’ estasi di silenzio. Poi, un misero altro, tira fuori da una tasca una cannuccia da bibita. Ci lega ad una estremita’ uno sbiadito fazzoletto e ruota, con due dita l’altra estremita’. Una pagina prende fuoco. Un altro misero fa un cenno, in avanti, con la testa. Una lampadina si infrange. C’e’ luce. Un altro misero lascia cadere un paio di gocce di un liquido verde e ci passa un tratto con uno stilo.
Comunico ha un fremito. Un altro misero pubblica due stracci, ed un altro un articolo sorriso, ed un altro un paradosso, ed un altro un anarchismo, ed un altro e’ un sovversivo, ed un altro invia una foto schizofrenica, ed un altro un disegno paranoico.
Comunico da’ voce, da’ spazio. Raccoglie i moti del costume, quello reale, della societa’ che attraverso il rinnovamento costante genera le culture e persegue la cultura della vita.
Comunico non disquisisce: fa. “Oggi la comunicazione opera in sistema chiuso”: tutto risponde perfettamente alla legge del profitto. Se la comunicazione e’ un oggetto-prodotto essa non puo’ non rispondere alla legge del profitto. Tutte le idee consolidate sono profitto. Se la comunicazione e’ comunicazione essa deve rispondere alla storia della cultura delle societa’. Tutte le idee non consolidate sono no-profit. Un’idea non consolidata, paradossale o sovversiva, su mille puo’ comunque essere “geniale”.

La promozione
Dalla cassetta della posta, una lettera, leggera, si poggia nella mia mano. e’ indirizzata proprio a me. Apro la busta.

La distribuzione
I foglietti giornalieri di un calendario si sfogliano velocemente come fanno vedere nei films per far capire che il tempo e’ trascorso. Compare l’1 di ottobre. Sotto la mia finestra uno strillone annuncia: “Comprate! Comprate! Hei tu! … Vu’ cumpra’ Comunico? Tremila lire!
…FerSgarbRara stracciato! Demolito il mulino bianco! Notiziario Unita’ Europea!
Provate a capire! Vu’ leggere? Vu’ pensa’? Vu’ comunica’? Vu’ vivere? Tremila lire!”
Sono affacciato alla finestra e vedo che all’incrocio, al semaforo, vengono vendute copie di Comunico ed anche presso la Scuola all’angolo, all’ora dell’uscita dalle lezioni.
Una giovane ragazza guarda in alto verso la mia finestra. Mi vede. Un gran sorriso sale verso di me: dietro di esso, come risucchiate, in fila ordinata, alcune dozzine di pagine. Una per una scorrono davanti il mio sguardo. Si arrestano un attimo. Poi si pavoneggiano in un elegante ondeggiare. Si compattano le une sulle altre e sfrecciano via lontano. Un senso di solitudine subentra allo stato di meraviglia. Reagisco per recuperare la sensazione precedente. Clicco e faccio moviola indietro; semafor veloce avanti; sorris ancora avanti, piano; fila di pagine: avanzamento lento. Le leggo.
Si presentano un po’ ruvide come i vecchi ciclostilati clandestini. Non hanno l’ipocrisia della patina con il lucido che fa scivolare piu’ rapidamente le parole e le frasi nel secchio dell’inutile. I caratteri sono piu’ grandi e meno fitti del solito e gli articoli ti saltano addosso come i messaggi dai manifesti. Il lettore non va conquistato per stanchezza visiva. Soltanto gli ufficiali si nascondono nella fitta selva e scrivono e vendono… a peso.
Sulla prima pagina c’e’ la tua “Scelta di vita”. Con una bella greca intorno potrebbe servire da copertina fissa. Tipo quei bandi che i banditori, dopo aver strillato negli spiazzi delle contee, affiggevano sul muro scrostato o su un tronco d’albero. Sulla pagina successiva c’e’ un articolo tematico, di un Ufficiale.
C’e’ arroganza di verita’, da depositario unto. La provocazione e’ insopportabile. Occorre reagire! Occorrerebbe spazi pagine disponibili! Arrivano subito dietro. Sono una, due, tre, quattro. Sono bianche. Sul retro hanno l’indirizzo di Comunico prestampato e la tassa di spedizione pagata. Sul prossimo numero verranno pubblicate piene di concetti, idee, dissacrazioni, popolanita’, genialita’, novita’: cultura della sabbia del deserto che morde la base dei muri della Cattedrale. Segue una pagina con un frontespizio che recita: Unita’ Nord Europa. Ottobre 2006. Notiziario degli avvenimenti. Poi in un’altra ci sono articoli ma… non riesco a capire…Immagino siano nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione. Altre pagine contengono analisi sulle comunicazioni di non qualita’ riscontrate in messaggi, campagne o spot. Siamo veramente scemi o ci prendono per scemi? E se ci lasciamo prendere per scemi siamo scemi per davvero? Altre pagine bianche e… concorsi e… un’auto dei pompieri passa a sirene spiegate. Le cicale ed i grilli sono ammutoliti. L’asfalto ed i suoi copertoni hanno riconquistato il monopolio…ma se i sogni hanno pervaso l’anima del Direttore. Il Miracolo e’ compiut il Direttore e’ miracolato!

La ragione ed il decalogo
Neanche un miracolo penetra un corpo di Editore. Le notti dell’Editore sono senza sogni: insonnia da stress o sonno profondo..da stress. I suoi giorni sono senza giuochi e le scommesse sono razionalmente calcolate e caso mai si puntano sui tavoli verdi. Un ics investimento, programmato a scadenze diverse, nell’arco di dodici mesi. Un misurato numero di copie per un misurato trend di crescita: basta qualche punto percentuale in piu’ del tasso ufficiale di sconto ed il business e’ stato raggiunto. Basta…rivendere l’idea.

Il decalogo
Comunico scommette con puntate sui tavoli blue: sono piu’ alti e..meno limitati. Comunico non e’ la rivista al servizio del Club degli Ufficiali. Indica in ogni numero, i temi per il prossimo e si rende credibile visualizzando con pagine bianche, di volta in volta, lo spazio che verra’ dato alle voci “libere”.
Comunico cerca di essere cultura anche attraverso percorsi di nuovi linguaggi e di nuove forme di comunicazione. Semina nell’humus della societa’ e mira di conseguenza la propria promozione e distribuzione. e’ su tali azioni strategiche che prodiga ogni possibile impegno.
Comunico comunica esclusivamente con mailing il proprio “avvento”… …o l’ho sognato?

Queste pagine, bianche in origine, non hanno resistito all’invito di Antonio Lagreca. E si sono animate di parole. Saranno sempre aperte ai lettori desiderosi di comunicare.

“Si alza in piedi e tra il lampeggiare dei flash e i musi lunghi delle telecamere, scruta la sala stracolma come un capo indiano, con la mano a visiera sulla fronte. Poi, Romano Prodi, attacca cosi’: “Dove sono i ragazzi? Ero venuto a fare un incontro con gli studenti: trovo invece professoroni, politici e televisioni”. E strappa subito la prima risata generale.
Il primo lungo applauso per l’ex presidente dell’IRI si leva invece dalla platea quando dice: “Meno esami si danno, meglio e’, almeno io la penso cosi’, e voi?”.
Era un Prodi in gran forma quello che il 19 settembre scorso, all’Universita’ Cattolica di Milano, ha partecipato al dibattito in occasione della presentazione del nuovo corso di laurea in scienze politiche. Con il suo intervento brillante ha oscurato le pur dotte relazioni di Giuliano Amato e del politologo Angelo Panebianco e sicuramente (anche senza volerlo) ha dato una bella lezione di come si deve parlare davanti ad una platea”.
La citazione e’ tratta da un articolo di Cristina Tirinzoni pubblicato su Espansione del dicembre 1995, dal titolo “Signore e signori saro’ breve”. Una passerella ragionata dei piu’ efficaci o piu’ noiosi public speaker dell’azienda Italia.

L’oratoria, un’ars dimenticata
Quando ci troviamo di fronte ad un pubblico siamo piu’ tesi, le palpitazioni aumentano, le mani sudano e spesso siamo colti da un groppo alla gola. Questo fenomeno, del tutto naturale e comune a tutti, e’ chiamato “paura del palcoscenico” e ne sono vittime anche gli attori professionisti. Ho conosciuto “vecchi” uomini di spettacolo che mi hanno raccontato di provare questo timore ogni sera, anche dopo 50 anni di palcoscenico.
Tuttavia esistono persone, che riescono ad intrattenere un uditorio in maniera non solo piacevole, ma anche efficace. Quando parlano in pubblico, per motivi professionali o anche per semplice conversazione, sanno catturare l’attenzione, seguire un’efficace logica dialettica, ricca di esempi e di informazioni pertinenti.
Di solito in questi casi si parla di doti innate. In realta’ queste persone applicano piu’ o meno consapevolmente tecniche basate su principi precisi, ormai codificati e facili da apprendere. Nella nostra scuola non si insegna a parlare. e’ strano, i professori insegnano a scrivere, insegnano a studiare e ritenere delle informazioni, ma il professore si accontenta soltanto di verificare se l’allievo ha imparato la lezione e quindi se ha immagazzinato in modo soddisfacente le nozioni. Come espone la materia non e’ oggetto di giudizio. Cosi’ i nostri ragazzi balbettano, si grattano la nuca e fanno spesso ehmm… Io credo di aver imparato a parlare nelle Assemblee del 1968 e dintorni e posso assicurare di non aver mai conosciuto critico piu’ severo dei miei compagni di allora.
Non avrei mai pensato di dover utilizzare le tecniche apprese sul palcoscenico e negli studi televisivi per insegnarle ai manager, ma oggi e’ necessario piu’ che mai sapersi presentare e, quindi, la mia arte, messa da parte, e’ tornata utile. Ho cominciato, dopo aver notato che tutti coloro i quali proponevano corsi per parlare in pubblico provenivano da esperienze aziendali. Queste persone potevano tutt’al piu’ insegnare a tenere una buona relazione ad un convegno o a gestire una riunione in azienda. Il convegno e’, in realta’, una rappresentazione, uno spettacolo e spesso ha dei pessimi attori che recitano pessimi testi. Comunicare non significa solamente parlare e informare. Vuole dire qualcosa di piu’.
Si comunica per trasmettere qualcosa, per far capire, per influenzare, per ottenere una reazione. Molto spesso questa reazione non corrisponde alle nostre attese, per questo e’ importante saper comunicare in modo da ottenere l’effetto desiderato. Tale modo di comunicare racchiude in se’ tre concetti basilari:
– Capire
– Trasmettere
– Mettersi in relazione.

I disturbi del passaparola
Il fenomeno del telefono senza fili e’ sicuramente noto a tutti noi. I bambini amano divertirsi e ridono delle distorsioni verbali che provoca il passaggio di una parola di orecchio in orecchio. Lombardi e Varvelli citano il seguente esempio in “Personale e Lavoro”. Il Capitano al Tenente:
“Come sa, domani alle ore 9, avremo l’eclissi di sole. Cio’ non avviene tutti i giorni. Conduca gli uomini in tenuta da campagna, alle ore 7, in Piazza d’Armi e cosi’ potremo vedere questo raro fenomeno. Io daro’ le necessarie spiegazioni. In caso di pioggia non vi sara’ nulla da vedere e, quindi, fara’ passare gli uomini in palestra.”
Il Tenente al Maresciall
“Per disposizione del capitano, domani alle 9, vi sara’ l’eclissi di sole con istruzioni del Capitano stesso; il che non avviene tutti i giorni. Se il tempo sara’ piovoso non avremo nulla da vedere fuori e l’eclisse avra’ luogo in palestra.”
Il Maresciallo al Sergente:
“Per ordine del signor Capitano, domani alle ore 9 inaugurazione dell’eclissi di sole, in tenuta da campagna. Il signor Capitano dara’ in palestra le istruzioni necessarie nel caso dovesse piovere, cosa che non avviene tutti i giorni”.
Il Sergente al Caporale:
“Domani alle 9 in tenuta da campagna, il Capitano fara’ eclissare il sole in palestra, con sue istruzioni se fara’ in tempo. Se piove non ci sara’ l’eclisse, sebbene questo non avvenga tutti i giorni.”
Il Caporale ai Soldati:
“Domani, alle ore 9 del mattino ci sara’ l’eclissi del Capitano in tenuta da campagna per effetto del sole, se sara’ bel tempo. Se piove l’eclissi avverra’ in palestra anche se questo non accade tutti i giorni.”
I Soldati fra lor
“Domani alle 9 pare che il sole, in tenuta da campagna, faccia eclissare il Capitano e le sue istruzioni. Peccato che questo non accada tutti i giorni.”
Ricordo il caso della filiale italiana di una grande multinazionale. Un anno partecipai ad una conferenza stampa dove persone dall’aspetto dimesso e tentennante ci annoiarono non poco. L’immagine che dettero della loro societa’ non era certamente delle piu’ incoraggianti. Un anno dopo quelle persone non sembravano piu’ le stesse, pareva fossero state sottoposte ad un autentico lavaggio del cervello. Allegre ed aggressive disegnarono un’immagine dell’azienda oltremodo positiva ed ottimista. Cos’ era successo? Che il management si era reso conto dell’insufficienza della loro preparazione e vi aveva posto riparo. Anche la rassegna stampa di quell’evento e quindi il ritorno in termini di comunicazione, sottolineo’ il successo del nuovo atteggiamento. Abbiamo parlato della paura del palcoscenico che colpisce anche gli attori professionisti.

La preparazione puntigliosa: un’arma contro l’emotivita’
Sembra che anche gli oratori piu’ esperti subiscano una trasformazione negativa nel momento in cui si trovano a dover affrontare un’attenta e spesso critica platea. L’emotivita’, caratteristica di ognuno di noi anche apparentemente calmissimo, non riesce ad essere repressa in situazioni pubbliche e tende a manifestarsi in modo evidente: per ovviare, almeno in parte, a questo inconveniente bisogna prepararsi; essere preparati significa accettare, con tutta l’umilta’ del caso, i consigli di chi ne sa di piu’. e’ incredibile quanti ottimi dirigenti sottovalutino un momento cosi’ delicato come l’esposizione pubblica della loro immagine e della loro parola.
Nessuno dovrebbe mai leggere il testo del proprio intervento. La presentazione risulta piatta e, soprattutto, gli spettatori si innervosiscono. Infatti, essi avrebbero potuto leggere quel testo da soli senza il disturbo di riunirsi nello stesso posto magari dopo viaggi di centinaia di chilometri. Tuttavia portarsi in tasca una copia dattiloscritta di cio’ che si intende dire e’ sempre una sicurezza. A tutti i principianti e’ raccomandabile questa buona abitudine. Essa e’ come la rete per i trapezisti del circo, nessun trapezista diventerebbe mai esperto se non usasse la rete quando e’ un principiante. Portarsi il manoscritto in tasca e’ un’ancora di salvezza, una propria personale tranquillita’ psicologica e nel caso in cui la gola si secchi, si deglutisca con difficolta’, le mani sudino e tremino leggermente, e la mente si rifiuti categoricamente di seguire un corso logico, insomma se proprio ci manca la parola, leggere la conferenza sul testo preparato e’ sempre meglio che restare completamente a bocca chiusa.
Tuttavia l’ancora di salvezza migliore e’ sempre una buona preparazione. Il modo migliore per controllare la qualita’ di cio’ che ci prepariamo a dire ad un pubblico e’ fare parecchie prove davanti ad un registratore, oppure, ancora meglio, davanti ad una telecamera.
Ascoltando la propria voce registrata o rivedendo la propria performance alla televisione, chiunque si rendera’ conto degli errori che commette e dei difetti che emergono dalla propria esposizione. Gradualmente, in prove successive, egli potra’ correggerli fino a quando non sara’ soddisfatto. La maggioranza delle persone tende comunque a “farla troppo lunga”. Riascoltandosi al registratore si puo’ imparare non solo a parlare piu’ rapidamente o piu’ lentamente e per un tempo totale piu’ o meno lungo, ma anche a dire le stesse cose in 10 invece che in 20 minuti. Ritengo che nessuno dovrebbe mai parlare piu’ di 45 minuti poiche’ e’ scientificamente provato che la curva dell’attenzione crolla definitivamente dopo questo periodo.

I rischi dei supporti visivi
I supporti visivi, dalle fotocopie da distribuire al pubblico alle presentazioni audiovisive, possono arricchire una presentazione verbale. Naturalmente non sono adatti a tutte le circostanze, ritengo pero’ che oggi, soprattutto nell’ambiente aziendale, ci sia un abuso di tali mezzi. Utili durante lezioni, conversazioni o presentazioni, tali supporti sono certamente fuori luogo in un discorso tenuto durante una cerimonia o alla fine di un banchetto.
Il cervello umano recepisce meglio gli stimoli visivi che quelli uditivi. Quando si entra in una stanza in cui e’ accesa una televisione, si puo’ notare come gli occhi della maggior parte dei presenti restano fissi sullo schermo pur ascoltando le parole di chi e’ appena entrato. Allo stesso modo un supporto visivo distoglie l’attenzione del pubblico da qualunque altro stimolo, compresa la voce dell’oratore. Di conseguenza il discorso e la presentazione visiva non devono essere in concorrenza fra loro. e’ bene utilizzare i supporti visivi soltanto per illustrare un concetto, non certo per affermarlo.
Ho visto persone proiettare dei lucidi e leggerli, dando a questi la funzione di scaletta personale e non di supporto comunicazionale. Quando il pubblico si trova di fronte ad una informazione visiva e’ probabile che la scorra e che si faccia un’idea di cio’ che verra’ detto e che tragga quindi le proprie conclusioni prima che l’oratore abbia aperto bocca. In questo modo, l’oratore perdera’ completamente il controllo del processo mentale del pubblico.

Come interpretare i messaggi della platea
Una delle cose piu’ difficili e’ captare i messaggi che provengono dal pubblic possono indicare noia, interesse, approvazione e disapprovazione. Il mio amico Mario Silvano dice di non dare molta importanza a qualcuno che, durante un suo discorso, guarda l’orologio. Tuttavia quando questo qualcuno si toglie l’orologio e lo picchietta con il dito per verificare se per caso si e’ fermato, allora vuole senz’altro dire che si e’ parlato troppo. I grandi attori leggono i segnali provenienti dal pubblico in modo innat sanno quando forzare la mano, quando attendere l’applauso, quando provocare la risata; tuttavia chiunque di noi puo’ imparare a “udire” il linguaggio non verbale che proviene dai nostri interlocutori.
La programmazione neuro-linguistica insegna che le persone percepiscono le informazioni attraverso tre filtri o canali d’access auditivo, visivo e cinestesico.
Non e’ difficile individuare il canale di comunicazione degli interlocutori e mettersi cosi’ sulla stessa lunghezza d’onda. e’ utile, in questi casi, ascoltare i cosiddetti predicati verbali e cioe’ i vari modi di dire. La persona sensibile al filtro visivo usera’ ad esempio verbi come vedere, dipingere, chiarire, focalizzare, osservare, schematizzare, ed aggettivi come chiaro, scuro, limpido, fosco, colorato, brillante.
Chi privilegia il filtro auditivo si esprimera’ con frasi di tipo “ti ascolto attentamente”, “qualcosa mi dice che”, con verbi come suonare, intonare, sussurrare, dire, ed aggettivi come sordo, crescendo, armonico. Il tipo cinestesico utilizzera’ espressioni come: “ho afferrato il concetto”, “sono molto sensibile” e “ho la sensazione”. Verbi come contattare, impressionare, sensibilizzare, muoversi; aggettivi some soffice, duro, duttile, corposo. Riuscire a valutare la tipologia del nostro interlocutore ci consentira’ di metterci nella sua stessa lunghezza d’onda. Il tipo visivo viene molto condizionato dalla posizione dell’interlocutore, vicino o lontano, in piedi o seduto, fermo o deambulante. Il tipo auditivo da’ molta sostanza alle parole, ama le domande precise e circostanziate, il linguaggio curato, le pause per digerire i concetti senza essere incalzato. Il tipo cinestesico ama “l’effetto pelle” in quanto capta sensazioni positive e negative. e’ impulsivo, tocca le persone mentre parla, entra subito in confidenza dando del tu e preferisce gli esempi pratici alle disquisizioni filosofiche. Non e’ certamente facile stabilire in una platea di 50 persone se la maggioranza di questi sono visivi, uditivi o cinestesici, ma ricordiamoci che queste persone giudicano il nostro comportamento, e che quindi i nostri atteggiamenti e la nostra mimica hanno piu’ importanza di quanto non pensiamo. Ricordiamoci, ad esempio, che certe gestualita’ hanno significati ben precisi: mai tenere le mani chiuse a pugno, mai contorcerle; far schioccare le dita, mangiarsi le unghie e compiere gesti come aggiustarsi la cravatta, sistemarsi la giacca o i pantaloni: sono indici di nervosismo o insicurezza. Le braccia conserte sono indice di chiusura verso gli altri.

L’importanza di saper ascoltare
Un giorno Paolo VI visitava un seminario ed un giovane seminarista gli chiese: “Santo Padre, come faro’ ad essere un buon prete?” e il Papa rispose: ” Fai sentire al tuo interlocutore la sua unicita’”. Dialogare non vuol dire soltanto parlare, ma sapere ascoltare. Gli altri si accorgono se noi siamo interessati a loro o no. Dobbiamo identificarci con il nostro pubblico, renderlo partecipe ed adeguarci ad esso. Dale Carnegie, grande maestro americano, autore di “Come trattare gli altri e farseli amici” dice: “Dovendo recarmi in un paese o in una citta’, cerco di arrivare con un certo anticipo in modo da poter vedere il postino, il barbiere, il direttore dell’albergo, il preside della scuola, alcuni segretari e poter entrare nei negozi per parlare con la gente, e capire qual e’ stata la loro storia e quali opportunita’ hanno avuto. Poi tengo la mia conferenza e parlo a quella gente degli argomenti che piu’ le stanno a cuore”.
Carnegie si rende perfettamente conto che la riuscita della comunicazione dipende dalla capacita’ dell’oratore di rendere il pubblico partecipe. Piu’ volte e’ stato detto che dobbiamo smetterla di parlare a… e cominciare a parlare con… ma questo significa: – Mostrare di saper ascoltare – Lasciare sempre la possibilita’ di replica – Dimostrare sempre rispetto per l’avversario – Rispondere sempre a una domanda diretta o indiretta – Dimostrare di essere interessati agli interventi degli altri (anche se non ne avete l’intenzione o non ne varrebbe la pena) – Nel riprendere la parola dopo un altro oratore, fare specifici riferimenti al discorso di chi ci ha preceduto – Dimostrarsi sempre concilianti anche se fermi nei principi – Non raccogliere mai una provocazione – Non generare polemiche e fare attenzione a non raccoglierne – Non aggredire verbalmente l’avversario o la platea – Essere cortesi ed educati ma non ossequiosi – Non mostrare riverenza o senso di inferiorita’, solo rispetto e considerazione.

Espedienti contro i provocatori
Le persone piu’ maligne e indisponenti, dice Heinz Goldman, uno dei massimi esperti internazionali di comunicazione, si siedono sempre in fondo alla sala quando state per tenere una conferenza e cercano di formare il “branco”. Cercate di farle sedere davanti, saranno piu’ scoperte, piu’ timide, percio’ meno aggressive. Quando vi aggrediranno con le loro domande malefiche, se sono ancora dietro, cercate di farle venire piu’ avanti. Basta dire: “non si sente, puo’ venire, per favore, piu’ avanti?”
Il lupo senza il branco e’ un agnello, accoglietelo con calore, disponibilita’ e gentilezza; riformulate la sua domanda, vi accorgerete che la sua aggressivita’ iniziale si e’ spenta. Non drammatizzate mai. In un clima di simpatia si supera ogni problema. Infine, due ultimi consigli prima di concludere questa carrellata certamente troppo breve.

Attenti a non divorare il “gelato”
C’e’ un grande nemico dell’oratore in erba, si chiama microfono. I principali errori dettati dall’ansia e dalla mancata abitudine sono tenerlo serrato alla bocca: il suono esce distorto e crea fastidio nelle orecchie dell’uditore. Tenerlo troppo distante dalla bocca: praticamente e’ come non averlo, ma ancor peggio, farlo sventolare come fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra. In questo caso la voce diventa irregolare, va e viene, e questo genera immediatamente nel pubblico disattenzione ed ilarita’.
Come si usa il microfon
La distanza media e’ di circa 10 cm (molto dipende dalla propria voce e dalla potenza dell’impianto, ma sono fattori facilmente valutabili in loco).
Dovendo sostenere una relazione, consiglio di fare la classica “capatina sul luogo del delitto” prima dell’inizio, per verificare il funzionamento.
Se il microfono e’ mobile, fare attenzione: avra’ un interruttore per accenderlo e spegnerlo e fara’ terribili fischi incrociando un altro microfono.
Parlando, guardate sempre in viso il pubblico, in modo da captare immediatamente se il suono arriva nel modo giusto, se si notano le espressioni di chi non sente o sente troppo forte.
Non farsi trasportare da un eccessivo protagonismo, cosa che la presenza del microfono provoca in alcune persone.
Non lasciatevi intimorire dallo strument ha solo la funzione di amplificare la vostra voce, null’altro.
Se la platea e’ particolarmente vicina o esigua e l’acustica della sala lo consente si puo’ farne a meno, dopo aver chiesto all’uditorio se e’ d’accordo.

Non improvvisatevi comici
Per finire, attenti a scherzi e barzellette. Anche se l’umorismo, insieme alla minigonna, e’ uno dei pochi motivi validi per alzarsi dal letto alla mattina, raccontare storielle e’ un mestiere. Vi sara’ certamente capitato di sentire un conferenziere raccontare una barzelletta e, fra il pubblico, nessuno che sorridesse. Rideva invece come un matto, dietro il suo tavolo con il panno verde, il conferenziere che, riuscendo poi a controllarsi, continuava dicend “beh, ora, seriamente…” Raccontare storielle ad una grossa platea magari non sara’ una forma d’arte, ma, per farlo con successo, bisogna essere professionisti, commedianti, e bisogna essere addestrati per imparare il tempismo, la scelta delle parole, il modo di dire la frase finale ad effetto. Soprattutto bisogna imparare a decidere rapidamente in base all’umore del pubblico se si puo’ raccontare una barzelletta e quale. e’ difficile imparare tutto cio’. Posso soltanto dire quali regole seguo io, perche’ ho constatato che funzionano.
Fate notare qualche incongruenza ed esageratela: questo tipo di umorismo, in genere, ha piu’ successo della solita barzelletta stantia sulle suocere o sui carabinieri. Il pubblico apre il cuore e la mente all’oratore che, deliberatamente, si sgonfia prendendosi in giro o richiamando l’attenzione su una propria debolezza. Per creare un clima di allegria e’ divertente raccontare un aneddoto su se stessi, dipingersi in una situazione ridicola o imbarazzante – pensate a Fantozzi, e’ uno dei personaggi piu’ abili nel prendersi in giro, nel farsi beffe di se’. La gente si riconosce nell’uomo comune con le sue difficolta’ ed i suoi limiti, non ama i “palloni gonfiati”.

Per riassumere, otto regolette per incantare un uditorio
1. Sorridete e mettete passione nell’esposizione
2. Non leggete, preparatevi prima e parlate a braccio
3. Usate parole semplici e concrete, frasi brevi
4. Fate esempi, raccontate aneddoti, usate metafore
5. Fissate lo sguardo, a turno, su tutto il pubblico presente in sala
6. Non abusate degli audiovisivi e soprattutto non leggeteli
7. Variate il tono della voce e non restate impalati
8. Siate brevi e rispettate rigorosamente il tempo che vi e’ stato concesso

Quel che ci resta di lui e’ poca cosa: qualche disco con Gastone, qualche film invecchiato nelle sue custodie di latta; e’ morto giovane, a soli 50 anni. Ci ha lasciato anche alcuni libri, di facezie, aneddoti, sciocchezzuole, perche’ gli garbava scrivere quasi quanto recitare. Gli dispiaceva parecchio quando qualche pedante gli faceva osservazioni sulla sintassi o sulla punteggiatura. Al diavolo i pedanti! Non aveva forse, proprio per tenerseli lontano, intitolato uno dei suoi libercoli “Ti ha piaciato?” Cade quest’anno il sessantesimo anniversario della morte di Ettore Petrolini, macchiettista, canterino, fine dicitore, inventore di una nuova espressione teatrale; la sua esperienza gli dimostrava che il buffone non era lui che faceva ridere la gente dal palcoscenico, ma gli altri, i pagliacci veri, gli arrivisti, i predatori, i ruffiani, le prostitute di alto bordo che pullulavano per le strade e sui giornali. Gran giocoliere delle parole, fece la vita del guitto, dell’attore, dell’astro nazionale, della vedette internazionale. Freddurista implacabile, vedendo entrare – dal proprio letto di morte – il sacerdote con l’olio santo, mormoro’ la sua ultima battuta: “Adesso si’ che sono fritto”.

Petrolini
Colmi, lazzi, scherzi, inezie, stupidaggini, freddure, cose serie oppur facezie, cose molli e cose dure. Cose dette o ancora da dire, frasi fatte, frasi sfatte, desiderio di morire, salamini e caffe’ e latte. Parodie, caricature, canzonette, maltusiani, prese in giro, corbellature di cervelli poco sani. Ed aneddoti e avventure di teatro e di caffe’; storie chiare e storie scure (eran due ed or son tre). Sguardi arditi, appuntamenti di donnine innamorate: convulsioni, svenimenti… (a pagarla risparmiate!) Baci, smorfie, letterine quasi sempre profumate: bianche, azzurre, verdoline ma toujours sgrammaticate. Questo e’ il libr bello e brutto, pazzo, sciocco e intelligente: non c’e’ niente e c’e’ di tutto; c’e’ di tutto e non c’e’ niente. Minestrone di sciocchezze: sale e pepe, pepe e sale, miele, zucchero, amarezze, ruzzoloni per le scale… Fischi, applausi ed altre cose; terzo premio, grande encomio, rose e spine, spine e rose, fa piacere, e manicomio… Passatismo, futurismo d’ogni luogo e d’ogni eta’; buonumore, menefreghismo e parole in liberta’… Chi e’ l’ autore?… son trecento dritti e storti, lunghi e corti, teste quadre e di telento. Son trecento, e non son morti!… Questo, quello, tal dei tali, TIZIO,CAIO, PETROLINI, sei poeti dozzinali, quattro geni e tre cretini… Questo e’ il libr cosi’ e’ nato e cosi’ vivra’ e morra’… Leggi e infin se ti e’ piaciuto, puoi anche ridere!…

Fortunello
(parlato)
Sono un tipo estetico, asmatico, sintetico, simpatico, cosmetico.
Amo la Bibbia, la Libbia, la fibbia delle scarpine delle donnine carine, cretine.
Sono disinvolto, raccolto, assolto “per inesistenza del reato”.
Ho una spiccata passione per il Polo Nord, il Nabuccodonosor,
i lacci delle scarpe, l’osso buco e la carta moschicida.
Sono omerico, isterico, generico, chimerico.
(Cantato)
Ma tutto quel che sono, non ve lo posso dire, a dirlo non son buono,
mi provero’ a cantar.
Sono un uom grazioso e bello, sono Fortunello.
Sono un uom grazioso e sano, sono un aeroplano.
Sono un uom assai terribile, sono un dirigibile.
Sono un uom che vado in culmine, sono un parafulmine.
Sono un uom eccezionale, sono un figlio naturale.
Sono un uom della riserva, sono il figlio della serva.
Sono un uom che vale un gramma sono un radiotelegramma.
Sono un uomo senza boria, son caffe’ con la cicoria.
Sono un uomo ginenegetico, sono un colpoapopletico.
Sono un uomo assai palese, sono un esquimese.
Sono un uomo che poco vale, sono neutrale.
Sono un uomo senza coda, sono una pagoda.
Sono un uomo condiscendente, sono un accidente.
Sono un uomo della lega, del chi se ne stropiccia.
Sono un uomo di Stambul, sono un parasul.
Sono un uom che fo’ di tutto, sono un farabutto.
Sono un uom dei piu’ cretini, sono Petrolini.
Ma tutto quel che sono, non ve lo posso dire,
a dirlo non son buono, mi provero’ a cantar.
Ma poiche’ non sono niente, sono un respingente.
Se avessi assai pretese, sarei un inglese.
Se fossi un gran ministro, sarei un cattivo acquisto.
Se vivessi ognor sperando, morirei cantando.
Se fossi una signora, lo vorrei ancora.
Se fossi una sciantosa, farei veder la cosa.
Se fossi una ciociara, la venderei piu’ cara.
Se avessi un po’ di pane, mi mangerei il salame.
Se ne avete bast, io ve lo metto all’ast.
E quando saro’ duro, saro’ come un tamburo.
E quando saro’ secco, me ne andro’ a Lecco.
E quando saro’ prete, avro’ le mie segrete.
E come le pacchiane, avrei le sottane.
E come tutte le spose, avrei le mie cose.
Se mio nonno avesse la cosa sarebbe mia nonna.
Se mia nonna avesse il coso sarebbe mio nonno.
Ma tutto quel che sono, non ve lo posso dire, a dirlo non son buono, mi provero’ a cantar.
Se ogni giorno mi purgo, sono Pietroburgo.
Se mi purgo di rado, sono Pietrogrado.
Se fossi una cocotte, passeggerei la notte.
Per non avere impiccio, gli brucio il pagliericcio.

Gastone
Gastone, artista cinematografico, fotogenico al cento per cento, numero di centro per “variete'” “danseur” “diseur”, frequentatore dei “Bal-tabarins”, conquistatore di donne a getto continuo, uomo incredibilmente stanco di tutto, uomo che emana fascino, uomo rovinato dalla guerra.

Gastone, sei del cinema il padrone
Gastone Gastone.
Gastone, ho le donne a profusione e ne faccio collezione
Gastone Gastone.
Sono sempre ricercato per le firme piu’ bislacche perche’ sono ben calzato perche’
porto bene il fracche con la riga al pantalone…
Gastone Gastone.
Tante mi ripeton sei elegante!
Bello, non ho niente nel cervello!
Raro, io mi faccio pagar caro specialmente alla pensione
Gastone Gastone.

Questa camminata l’ho inventata io (attraversa il proscenio con un passo di danza che accompagna il “refrain” della canzone. Mostra il guanto attaccato all’altro, che e’ calzato) Anche questa e’ una cosuccia mia. E’ una cosuccia senza pretensioni, ma e’ mia. Non l’ho fatta neanche registrareE’ di pubblico dominio. Altri, avrebbe precisat “Made in Gastone…” e’ una mia trovata e me la scimmiottano tutti i comiciattoli del varieta’. I miei guanti bianco latte elegantissimi: guardateli! Pero’ il guanto bianco latte e’ pericoloso… Una volta, sorbendo una tazza di latte, distrattamente mi sono bevuto un guanto… Quante invenzioni ho fatto io! Discendo da una schiatta di inventori, di creatori, di deformatori…quanta genialita’ nella mia famiglia! La cava del genio. Mio padre, per esempio, ha inventato la macchina per tagliare il burro. Cosa semplicissima: un pezzettino di legno alle cui estremita’ e’ attaccato un sottilissimo fil di ferro formante un arco. Naturalmente, per questa invenzione, il mio genitore fu plagiat soppresso il pezzo di legno, col solo filo – e nemmeno di ferro – han costruito lo strumento per tagliare la polenta… Poi e’ venuto un certo Marconi che ha abolito pure il filo. Mia madre? Anche lei una grande inventrice: anzitutto ha inventato me. Poi aveva il senso dell’economia sviluppato fino alla genialita’: figuratevi, io mi chiamo Gastone. Ebbene, lei mi chiamava semplicemente Tone… per risparmiare il gas…Infatti il mio diminutivo e’ Tone…tutti mi chiamano Tone…quante donne si contenterebbero di mangiare pan…e tone!… Al cinema tutti dicono mo vi e’ Tone! Eh! a me, m’ha rovinato la guerra, se non c’era la guerra a quest’ora stavo a Londra. Dovevo andare a Londra a musicare l’orario delle ferrovie. Perche’ io sono molto ricercato…ricercato nel parlare, ricercato nel vestire, ricercato dalla questura…A me mi ha rovinato la guerra, se non c’era la guerra a quest’ora stavo a Londra. Io sono molto ricercato, anche perche’ porto bene il frac. Io sono nato col frac. Gli altri quando portano il frac sembrano incartati. Io quando sono nato, mia madre mica mi ha messo le fasce, macche’…mi ha messo un fracchettino…camminavo per casa sembravo una cornacchia. E adesso vi daro’ un saggio del mio ingegn se l’ipotiposi del sentimento personale, prostergando i prolegomeni della mia subcoscienza, fosse capace di reintegrare il proprio subiettivismo alla genesi delle concomitanze, allora io rappresenterei l’autofrasi della sintomatica contemporanea che non sarebbe altro che la trasmificazione esoplomaniaca…

Che ve ne pare? Che bel talento. Ma io non ci tengo ne’ ci tesi mai.
Gastone sei davvero un bell’Adone!
Gastone Gastone…Gastone
con un guanto a pendolone vado sempre a pecorone
Gastone – Gastone.
Ogni cuor si accende ed arde perche’ ci ho gli occhioni belli
le basette a la Bonnard ed i gesti alla Borelli misterioso come Ghione
Gastone – Gastone.
Bice solo lei mi fa felice
Gemma ama solo la mia flemma
Rina lei per me la cocaina
se la prende a colazione pensando a Gastone.

l viaggiatore che, nell’anno di grazia 1996, si trovasse a bordo di un modernissimo jumbo-tram milanese, accanto al guidatore potrebbe leggere un cartello sul quale, in due righe e a caratteri volutamente ben visibili, campeggia la scritta “E’ vietato al manovratore/di parlare”. Sintetico, difficilmente equivocabile, ma un vero disastro “comunicativo” se confrontato, per esempio, con un editto in pietra che si puo’ leggere su un muro di Venezia lungo la strada che conduce alla stazione:

Il Ser.o Pr.pe fa saper
et e per ordine degli
Ecc.mi Sig.ri Capi del Ecc.co Con.co di X.ci
che non sia alcuna persona
di che grado statto e condicione esser si voglia
che ardisca di giocar a carte, balla, balon, pendollo, borelle o
d’altro qual si sia gioco che imaginar si possa
ne meno far alcuna redutione schandalosa
tumultuar o stripitar in tempo alcuno
nelle chioverre della
Veneranda Scola di San Gio. Evangelista
sotto quella pena maggior che parerano a loro Ecc.
et il presente sia pubblicato et affisso
nelle predette chiovere a chiara inteligensa di cadauno.
1668 a di 10 sett.re
pubblicato nel contra scritto luocho per me

Iseppo Gallea di Chomandador

A parte la magniloquenza, caratteristica del secolo di appartenenza, il confronto tra i due avvisi offre spunto per almeno due riflessioni: sul modo di affrontare l’aspetto linguistico nella comunicazione da pubblica istituzione a cittadini e sul loro modo di essere significanti. Il risultato ci porta con una certa sicurezza a guardare con rimpianto al prodotto di qualche secolo fa, se non altro per l’innegabile chiarezza espositiva che ancora conserva.

L’importante e’ ordinare
Il primo esempio mette in piena luce due tra le caratteristiche negative che piu’ frequentemente ricorrono nella comunicazione rivolta dagli enti pubblici ai cittadini, e che sono quindi indicative di un livello medi il carattere impositivo del messaggio e l’utilizzo del linguaggio. Che si tratti di un’imposizione lo si evince inequivocabilmente dalla prima riga, anzi dalle due prime parole. Inoltre, la formulazione del messaggio, questa forma italiana abbastanza improbabile, mal si armonizza con il modo piu’ usuale adottato dalle persone per parlare tra loro, almeno nel 1996.
Dal punto di vista della tecnica della comunicazione, un copywriter che avesse scritto una simile affermazione per un prodotto o un servizio destinato al libero mercato certamente avrebbe perso un bel po’ di punti sul piano della valutazione professionale e della possibilita’ di carriera. Nelle istituzioni pubbliche invece, nessuno fa una piega e, se qualcuno azzarda una critica, viene spesso invitato a documentarsi su Zingarelli o Tommaseo, e il capitolo e’ chiuso.
Nessuno vuol qui negare, per esempio, diritto di cittadinanza alla parola obliterazione, ma, considerando che ben pochi ne conoscono il significato, delle due l’una: o il problema di farci capire dalla gente non interessa affatto, visto che in un modo o nell’altro tutti si devono fare una ragione delle norme vigenti, e allora obliteriamo pure i biglietti dell’autobus. Oppure, se ci interessa veramente comunicare con la gente, allora dobbiamo trovare il giusto modo di parlare con loro, sforzandoci ovviamente di non impoverire il nostro patrimonio linguistico.
Per fortuna si va diffondendo ormai da tempo la coscienza dello scollamento fra “detto” e “vissuto”, e cosi’ come ci si rende conto che qualche cosa non va, si acuisce anche il desiderio di capire perche’ si sia giunti ad un dialogo tanto difficoltoso e a un cosi’ preoccupante distacco tra le aspettative dell’ente e quelle del cittadino, e viceversa. Capire e’ certamente il primo importante passo che porta a cercare e a trovare il modo per modificare le cose. Poiche’, infine, non sono molti i punti di riferimento ai quali rifarsi, anche una semplice riflessione messa nero su bianco, che non pretenda di esaurire l’argomento, ma solo di avviare una discussione, dovrebbe avere una sua utilita’.
Comunicare, per il potere, e’ sempre stato importante e le modalita’ adottate per adempiere a questo compito si sono, di norma, adeguate correttamente alle diverse esigenze e alle diverse epoche. E’ anche vero, pero’, che il modificarsi nel tempo delle esigenze – e quindi delle modalita’ espressive – e’ stato un processo la cui gradualita’ evolutiva si e’ manifestata in modo decisamente lento. Cio’ principalmente in virtu’ del fatto che alcuni elementi fondamentali mantenevano una sostanziale invarianza di fondo, nonostante le trasformazioni delle forme di gestione del potere. All’epoca delle Signorie, tali elementi erano essenzialmente due: il primo era legato alla stabilita’ del potere che, una volta conseguito, rimaneva a chi lo deteneva e ai suoi eredi, finche’ qualcun altro non se ne impadroniva in modo per lo piu’ violento; il secondo al livello di alfabetizzazione, che e’ stato per secoli notevolmente basso, impedendo alla comunicazione scritta di raggiungere grande diffusione. Un altro elemento connotante la comunicazione da parte del signore era che, eccezion fatta per i problemi di grandissima portata, se ne sentiva la necessita’ solo nelle aree di maggiore concentrazione, cioe’ nelle citta’, dove sorgevano i problemi di convivenza. Il suo compito quindi, da sempre, e’ stato quello di determinare un certo ordine, stabilire priorita’ e modelli di comportamento, specificando quello che si poteva o si doveva fare e quello che non si poteva o non si doveva fare.
Di qui il carattere per lo piu’ impositivo di ogni comunicazione. Carattere che non veniva abbandonato neppure nei casi piu’ lieti se pensiamo che il signore poteva anche imporre ai sudditi di far festa e divertirsi. I mezzi a disposizione del potere, pero’, si riducevano alla sola comunicazione orale e alla rappresentazione di se’. Anche le esecuzioni sulla pubblica piazza, per esempio, erano un potente mezzo per comunicare la necessita’ per tutti di rispettare le regole imposte e, nello stesso tempo, determinare una precisa immagine di chi gestiva il potere. Non essendo ancora stata introdotta la consultazione elettorale, ne’ data la facolta’ agli amministrati di esprimere giudizi significativi, il potere viveva una sua certezza mai messa in discussione.
Difficilmente, a meno che non si trattasse di persona particolarmente sensibile, il signore aveva quindi interesse a porsi il problema di quale immagine il popolo avesse di lui. E per secoli gli unici modi conosciuti per consegnare alla storia un buon ricordo di se’ erano un’accorta gestione della giustizia e la realizzazione di importanti opere pubbliche. Non a caso, quando si voleva parlar bene di un signore o di un re, di lui si diceva che era giusto e che favoriva le arti. Ne’ le cose presentano sostanziali differenze nel periodo atipico dei Comuni, quando cioe’ il governo della citta’ diviene fenomeno collettivo e meno evidente e’ la figura del signore.

Rivoluzione anche nella comunicazione
Il trapasso storico a una nuova fase nei meccanismi della comunicazione coincide con un avvenimento emblematic la presa della Bastiglia. Perche’ liberta’ e uguaglianza non rimangano pure e semplici parole vuote occorre che vi sia una maggior partecipazione dei cittadini, quindi maggiore informazione, maggiore coscienza dei propri diritti e una circolazione delle idee che trova, nella grandiosa opera degli illuministi, capisaldi teorici e terreno ben dissodato.
A questo problema di ordine generale il potere centrale risponde con il decentramento dello stato, mediante la costituzione degli organismi locali, ai quali viene demandata una buona fetta di potere amministrativo, oltre che con il servizio di leva obbligatorio per tutti i cittadini, i quali in questo modo cominciano a venire sistematicamente a contatto con altri simili di zone diverse, favorendo lo scambio delle idee e delle informazioni. Nonostante tutto questo, la realta’ industriale deve ancora compiere passi da gigante per affermarsi su larga scala. Le nazioni sono ancora a stragrande maggioranza una realta’ agricola, l’alfabetizzazione e’ solo un programma sulla carta e se e’ pur vero che viene sempre piu’ aumentando la diffusione dei fogli stampati, la maggior parte dei cittadini non puo’ beneficiarne. Per avere la certezza che gli amministrati cittadini siano informati, il mezzo piu’ sicuro e’ ancora il banditore che gira per le contrade a diffondere la volonta’ del potere centrale, e il vecchio “mando’ lo bando per li quattro venti” di medioevale ricordo non e’ ancora da buttar via.
Anche se i tempi sono profondamente cambiati, i modi e i mezzi di comunicazione del potere non si discostano molto da quelli precedenti. Questo fenomeno, unito al mantenimento del carattere impositivo della comunicazione, determina una serie di conseguenze importanti. Il concetto profondamente innovativo di “pubblico”, che la rivoluzione aveva conquistato a costo di violenti sommovimenti e che Napoleone aveva esportato in tutta Europa, l’essere cioe’ le istituzioni di tutti e aperte a tutti, non diviene patrimonio culturale di tutti.

Il potere cambia realmente?
Coscientemente o meno l’archetipo del potere vissuto come qualcosa di minaccioso, si mantiene nel tempo, trasferendosi dal signore al “pubblico” senza grandi soluzioni di continuita’. Con logica concatenazione dialettica di causa ed effetto, i successivi passaggi si possono schematizzare in modo semplice: Pubblico = potere; Potere = possibilita’ di ordinare; Ordine = obbligo di esecuzione da parte del cittadino. E’ una spirale perversa, molto efficace, che perpetua un archetipo ben radicato e che si mantiene a lungo. Grossomodo fino al volgere di questo secolo o, piu’ precisamente, fino all’invenzione e alla diffusione della radio. A livello di chi gestisce la cosa pubblica, per altro verso, poche sono state le personalita’ sensibili alle evoluzioni e ai significati di tali evoluzioni che si sono succedute nell’uso dei diversi strumenti impiegati nella comunicazione.

Qualcuno, pero’, aveva capito
Eccezione illustre a questa superficialita’ e’ il cavalier Benito Mussolini, il quale, teso com’era a porgere di se’ e del suo regime un’immagine eroica e positiva, ha dato vita al primo piano per la costruzione di un’immagine “pubblica” coordinata. Affascinato dalle potenzialita’ di mezzi nuovi, quali la radio e il cinema, ne studia con puntigliosita’ le possibili utilizzazioni e capisce ben presto come questi, che fino ad allora erano stati considerati solo piacevoli momenti di evasione, possano trasformarsi in cassa di risonanza di eccezionale importanza. Possiamo senz’altro affermare che, a proposito dello studio di quale possa essere la migliore combinazione dei supporti della comunicazione (oggi la chiameremmo “media mix”) finalizzata al conseguimento di un preciso obiettivo, il regime intui’ con estrema chiarezza che non solo si stavano affacciando mezzi nuovi da utilizzare, ma che si potevano anche rivisitare attentamente una serie di altri supporti, non ancora vissuti come tali. Ci sembra pero’ interessante sottolineare in questa sede come si sia forse ancora poco riflettuto – e non solo da parte degli uomini pubblici – su quanto si fosse spinto in avanti il discorso della comunicazione, se e’ vero, come e’ vero, che il fascismo riusci’ a comprendere l’importanza di un logo e di un marchio, del riprodurlo sotto le forme piu’ disparate (dalle spille ai monumenti), del metterlo in evidenza in ogni occasione.
Con la stessa lungimiranza, il regime riusci’ a inventare i cinegiornali e a mettere a punto un linguaggio ben calibrato, nel quale si intrecciavano sapientemente le forme autoritarie e impositive (credere, obbedire, combattere) a quelle immaginifiche di indubbia memorabilita’ (l’aratro traccia il solco, la spada lo difende), per arrivare a un uso preciso anche dell’architettura che, se oggi denuncia tutto il gratuito e vuoto intento scenografico, riusciva allora a comunicare una possibile emozione, anche tenendo conto del livello culturale medio, il quale tra l’altro era attentamente studiato e controllato. Il ventennio, con la sua necessita’ di recuperare un consenso anche a scelte autoritarie, diviene cosi’ dal punto di vista dello sviluppo di una tecnica di comunicazione da parte del “pubblico”, un momento importante, carico di minacce, ma anche di interessanti promesse.

Il passo si fa spedito
E siamo al secondo dopoguerra. Il fenomeno dell’inurbamento diventa l’elemento caratterizzante la nuova fase dell’industrializzazione. Dal punto di vista della comunicazione i problemi che si devono affrontare assumono dimensioni molto piu’ consistenti, se non altro perche’ la citta’ diviene un’unita’ territoriale nella quale si confrontano realta’ molto complesse in aggregati sempre piu’ significativi. Da un punto di vista politico si pone come esigenza non piu’ dilazionabile l’ampliamento della base culturale dei cittadini, anche perche’ l’industria ha bisogno di mano d’opera sempre piu’ qualificata. Controlli piu’ severi sulla norma dell’istruzione obbligatoria, aumento degli strumenti di diffusione culturale: radio, giornali, periodici e libri; ulteriore crescita del numero delle sale cinematografiche, moltiplicarsi dei momenti di incontro, una marcia sempre piu’ spedita verso l’uscita dal tunnel della ricostruzione, maggiore circolazione delle idee e finalmente, grazie al grandioso fenomeno della televisione, anche un ulteriore contributo all’unificazione della lingua. Si pongono in tal modo le premesse per un salto qualitativo e una radicale trasformazione del modo di vivere in Italia. Comincia a circolare qualche soldo piu’ di prima, il cittadino italiano diviene poco alla volta un soggetto sempre piu’ interessante per chi deve far circolare prodotti e merci, i fustigatori dei costumi parlano sempre piu’ insistentemente di consumismo e di allettamenti perversi da parte di un fenomeno guardato con sospetto che si e’ cambiato il nome e anziche’ “re’clame” pretende di essere chiamato pubblicita’.
L’industria privata, spinta dalla necessita’ di farsi apprezzare per affermare i suoi prodotti sul mercato, inizia un processo irreversibile di attenta analisi delle strutture comportamentali, delle necessita’ linguistiche e degli elementi di persuasione che determinano un nuovo livello di conoscenza con il quale devono confrontarsi tutte le strutture che vogliono parlare con la gente in genere e con i consumatori in particolare.
Questa tecnica di comunicazione profondamente diversa, attenta ai meccanismi sottesi dai richiami del mercato e dai banditori (da utilizzare per la comunicazione orale) dalle insegne e dai manifesti (per la comunicazione visiva), dai modelli da imitare (opinion leader) e dai “passa parola” (gruppi omogenei di consumatori) e’ ancora una volta lasciata ai privati. Una tecnica che nel tempo evolve rapidamente e comporta una serie di contraccolpi destinati ad incidere in tutte le strutture.

E la comunicazione pubblica?
Se l’industria privata aveva sentito molto presto il bisogno di cambiare abito e nome al suo modo di fare comunicazione, non era per il desiderio di essere originale a tutti i costi. Il fatto e’ che “re’clame” meglio si addiceva alla comunicazione immediata e coinvolgente degli splendidi manifesti dei Boccasile, dei Dudovich e dei Metlicovitz. A mano a mano, pero’, che la base del mercato si era venuta espandendo, si e’ avvertita la necessita’ di articolare meglio il messaggio. Prodotti tra loro concorrenti e a prima vista molto simili gli uni agli altri, dovevano sottolineare le differenze a loro favore, per farsi preferire. La tecnica della comunicazione affianca all’emotivita’ evocativa dell’immagine e all’aspirazione del modello di vita, proposto con immagini molto sofisticate, argomentazioni sempre piu’ pesate. La fonte alla quale si abbevera e’ decisamente americana e quest’ultima – come e’ tipico di una cultura che ha bisogno costante di regole e manuali – stabilisce norme e modalita’ che vengono da noi riprese pari pari, anche come terminologia.
Il pubblicitario, non trovando riscontro lessicale italiano nella sua formazione professionale, parla quasi esclusivamente inglese, non disdegnando di atteggiarsi a diverso e talvolta esagerando, come nel caso delle parole “plus”, “minus” e “media” che, non essendo riconosciute per quello che sono – cioe’ semplici parole latine – vengono pronunciate all’americana: “plas”, ” mainus” e “midia”. Facezie a parte unique selling proposition, reason why, supporting evidence, target, audience, end result, e tante altre parole sono il risultato di un approfondimento e di uno studio del tessuto sociale nel quale ci si inserisce e del complesso legame tra azioni e reazioni, messaggi e loro decodifica. Il manifesto dell’Ente pubblico inizia pero’ ancora con il fatidico “Il Sindaco ordina…” La quantita’ delle parole contenute in un manifesto rimane quella di prima, anche se ormai un diverso ritmo di vita impone tempi di lettura sempre piu’ brevi, e il manovratore continua a subire il divieto di parlare.
La gente, allettata e blandita dalle industrie che desiderano ampliare la cerchia dei loro clienti, e in una situazione in cui il benessere aumentato ha consentito di trovare alternative a molti servizi pubblici (automobile piuttosto che tram o treno, clinica privata piuttosto che ospedale pubblico, ecc.) si e’ via via raffreddata nei confronti di questi servizi, i quali non riuscivano neanche a promettere quanto i privati gia’ garantivano. E non e’ solo una questione di linguaggio, che non riesce ad adeguarsi ai tempi, ma piuttosto di una mentalita’ che si denuncia per quanto di vecchio porta dentro di se’, per quella confusione non ancora diradata tra propaganda e comunicazione, e per quel senso di colpa nello spendere male e in modo vistoso il denaro della comunita’. Complesso che, sotto sotto, serpeggia tra gli uomini pubblici la cui formazione culturale e’ spesso politica e partitica e che non sempre hanno intuito l’importanza di gestire le aziende pubbliche come imprese commerciali a tutti gli effetti.
Poi vennero gli anni ’80, la voglia di comunicare, il fiorire di periodici informativi, prodotti dalla buona volonta’, i cui risultati, anche se non sempre molto buoni, cominciavano a dare corpo al problema della comunicazione, dell’immagine da trasmettere e della gestione imprenditoriale. Da allora qualcosa e’ cambiato e se oggi, 1996, accanto al posto di guida del tram troneggia ancora l’esemplare dicitura con la quale abbiamo aperto il discorso, si e’ pero’ messo in moto un meccanismo la cui tendenza e’ irreversibile e i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se comunicazione significa appunto “portare a conoscenza del pubblico”, allora darle impulso significa per l’azienda pubblica adempiere ad uno dei suoi compiti istituzionali rendendo partecipe il suo pubblico della sua attivita’ e dei suoi obiettivi.

Avevo uno zio, Vincenzo Libassi, appunto, che a trentacinque anni, una tiepida mattina, si sveglio’ all’alba, molto prima del solito, e comincio’ a parlare da solo. I medici lo certificarono subito “matto” e cosi’ rimase classificato fino alla morte, avvenuta a settant’anni. Quando, nell’angolo, all’ombra del balcone di casa, restava seduto per ore ad osservare il mare lontano, sotto, alla marina, io e le mie cugine ci accovacciavamo tranquille vicino a lui e cosi’ restavamo a sentirlo… affascinate.

Lui dice che Maria ando’ al mercato, giovedi’, sera, per comprare un mazzo di rose da portare a compare Giovanni. Ma lui dice che quello stesso giorno non potevano trovarsi rose al mercato perche’ i pescherecci che erano usciti in mare, erano rientrati al porto, di fretta, e senza neanche aver calato una rete. L’immagine sacra murata alla base del faro non era piu’ al suo posto. I carabinieri avevano sentito dire che era stata vista dietro un cespuglio presso la casa di campagna dal fattore del conte Pirollo. Lui dice che soltanto quando le rondini useranno le buste di plastica per portare il cibo dentro ai loro nidi, Annina potrˆ sposare il sarto che ha la bottega nel vicolo. Lui dice che Callisto gli ha raccontato di aver visto la signora Valeri, davanti al portone di casa, sistemare nel portabagagli della panda una borsa da spiaggia, mentre il cornuto del marito osservava i suoi movimenti nascosto dietro le persiane della finestra al secondo piano, e che quando poi, la Panda e’ passata davanti al bar, la bella signora ha rapidamente indirizzato uno sguardo verso un tavolino all’angolo, dove quello svelto di Gino, il cameriere, stava servendo una coppa di gelato al farmacista. Lui dice che un gelato, sorbito al mattino con quattro biscotti, tipo savoiardo, fa bene all’intestino, inquinato dalle notizie del telegiornale e previene i reumatismi molto piu’ efficacemente delle frizioni serali fatte con l’alcool denaturato.
Lui dice che tutti sanno che Paolo, ormai da un paio d’anni, fa l’amore con la cognata dello zio, che ormai ha quasi cinquant’anni e a letto fa ben tesoro dei trent’anni che ha piu’ di Paolo, ed Anselmo, il pescatore, a questo fatto ci pensa ogni volta che va a raccogliere le rose in un angolo del basso fondale di fronte alla punta di Venere, li’ dove le triglie sono numerose. Lui dice che i signori, d’inverno, diventano sciatori e d’estate diventano bagnanti, e che i poveri, a seconda della stagione, diventano meno dieci gradi e piu’ trenta gradi e che quindi la temperatura corporea e’ alla base degli indici statistici di classificazione sociale. Lui dice che le coincidenze incontrano, in alto nelle nuvole, i pensieri caldi di desiderio e si intrecciano insieme a loro e si lasciano cadere davanti alla porta del Municipio, li’ dove un giorno, Carlo e Neide si troveranno faccia a faccia e libereranno gli istinti al buio dell’androne di casa Suna. Lui dice che l’amore e’ una cosa che devono fare i bambini e non i grandi. Questi ultimi, infatti, sono piu’ condizionati dalle faccende della vita e non riescono ad isolare gesti di altruismo. Lui dice che i baci sono come le ciliege e che, come queste, per essere piu’ dolci, devono essere raccolti durante le ore piu’ calde del giorno quando le labbra conservano di piu’ lo zucchero dei raggi solari. Le biciclette, invece, e’ meglio usarle durante le ore piu’ fresce perche’ cosi’ i copertoni si appiccicano di meno all’asfalto. Lui dice che si e’ sparsa la voce che Don Gaetano, il parroco, l’altra sera, al bar, dopo un paio di bicchieri di rosso, ha raccontato che dalle piu’ recenti confessioni di fedeli, si intuisce che oggi gli uomini e le donne non possiedono piu’ le lingue giuste per i baci passionali perche’ adesso si preferisce risparmiarle per gli impegni degustativi delle acque minerali che, meglio dei baci, riescono a saziare di gas lo stomaco e la mente. Lui dice che anche dal tabaccaio, giorni fa, ha sentito una storia abbastanza simile, ma sulle mani della nuova gente che sarebbero cresciute piu’ grandi dei piedi e questo perche’, in primo luogo, Agnelli non ce la faceva a costruire pedali di freno e frizione proporzionati, ed in secondo luogo perche’ ai pescatori i piedi servono di meno, che sarebbe preferibile che avessero dei rulli al loro posto per scivolare meglio sulle onde e raccogliere le rose.
Lui dice che compare Giovanni aveva piacere di regalare mazzi di pesce a Maria ma che poi, un giorno, i vicini di casa si erano ribellati per il gran puzzo di olio fritto ed avevano fatto intervenire le guardie sanitarie che, con un rapporto alla Procura, erano riusciti a bloccare tutti i lavori nei campi e i contadini si erano impegnati solennemente a raddrizzare, prima della luce dell’alba, tutti gli olivi perche’ producessero fagiolini da cuocere al vapore, con aglio ed un po’ di aceto. Lui dice che i corpi di almeno tre amanti della puttana Linda non sono nella loro tomba, al cimitero. Un giorno scomparvero dalla circolazione e i parenti mentirono al maresciallo nell’affermare che erano stati seppelliti dopo esser morti per aver mangiato pesce guasto, perche’ volevano evitare che si indagasse sui loro vizi e si scoprisse che il pappone aveva scaricato, sulla loro faccia, duecento grammi di pallettone di piombo e ne aveva bucato tutti i corpi, ancora caldi, in un angolo del basso fondale alla punta di Venere.
Lui dice che Annina era entrata nella bottega del sarto alle sei del pomeriggio e che tutti l’avevano vista uscire circa un’ora e mezza piu’ tardi, portando con se’ due grosse buste di plastica piene zeppe di rondini e che il conte Pirollo aveva giurato che quelle stesse rondini avevano trasportato, presso la casa di campagna del fattore, l’immagine sacra della base del faro. Lui dice che proprio per questo motivo, quel giorno, i piccoli rondinotti, nel nido, non avevano ricevuto il cibo e si erano dovuti accontentare di un po’ di gelat che almeno faceva bene al loro intestino da liberare sopra le teste dei bambini che giocavano davanti alla porta del Municipio. Lui dice che Caterina fino a qualche settimana prima, era magra ed aveva una pelle liscia come petali di rosa. Adesso era andata ingrassando perche’ aveva cominciato ad ingoiare le banconote da centomila lire che il marito Cecco, da anni ormai, teneva nascoste dentro le pagine dei libri ordinati nello scaffale della sala. Lui dice che Caterina si era dedicata alle banconote perche’ quando dieci anni fa si era sposata, in Chiesa c’era puzza di sudore e i documenti del matrimonio erano stati falsificati dall’impiegato dell’ufficio anagrafe che vi era stato costretto da Carlo, il testimonio, che lo ricattava per via di una vecchia storia di un aborto illegale. Caterina aveva da sempre saputo tutto, ma fin quando la situazione le aveva fatto gioco, per coprire le sue vergogne. Lui dice che oggi lei non ha piu’ semi da ingoiare e allora si ingravida la pancia con le banconote e la pelle diventa come le bugie, e tutto decade in una stampa che si ingiallisce e il testimonio e’ felice e Cecco ha vinto una bottiglia di spumante. Lui dice che mi stava guardando nel momento in cui sono stata unta e che si e’ accorto di come la mia aura si e’ illuminata di un colore verde pisello e che e’ per questo motivo che io parlo sempre con i miei parenti che vivono in America lasciando posare le parole sulle correnti che si dirigono verso ovest.

Era un’abitudine che mi tiravo dietro sin da ragazzo. Se andavo al cinema e il film si rivelava una “bufala”, io, imperterrito, me lo vedevo sino alla fine. Se iniziavo a leggere un libro, anche se non mi piaceva arrivavo sino all’ultima pagina. (Forse perche’ la mia “cultura” di genovese mi spingeva a sfruttare l'”investimento” fatto sino in fondo…).
Adesso non piu’. Mi sono ribellato perche’ ho deciso che non e’ giusto che sia io ad impegnarmi nella “decodifica” di una comunicazione che sovente e’ fatta ignorando le esigenze di chi riceve il messaggio. Mi capita sempre piu’ spesso di imbattermi in articoli, trattati, filmati, convegni in cui la parola viene usata a solo ed esclusivo uso di chi la pronuncia. Evidentemente trascurando di pensare al pubblico che si ha di fronte. Si fa sfoggio di cultura, si usano parolone o si fanno riferimenti storici o letterari che solo alcuni eletti riescono a comprendere. E che dire dei lunghi brani in lingua straniera sbattuti li’ senza preoccuparsi di fornire una traduzione? Le avete presenti alcune recensioni d’arte o prefazioni a libri? Bestiale! Adesso se trovo chi fa cosi’, mi alzo e me ne vado. In tutti i modi possibili. Interrompo spazientito la lettura del libro, cambio il canale tv, lascio il seminario o il congresso. Sono convinto che le parole siano strumenti meravigliosi che possono anche essere utilizzate bene.
Caro comunicatore, lo so che trasferire un messaggio, un concetto, un’emozione e’ cosa non facile. Ma sono troppo rispettoso del destinatario della comunicazione e sto dalla sua parte. Se lui non capisce non e’ lui che deve sforzarsi. Caro signore che fa comunicazione, se vuol comunicare non c’e’ che una possibilita’: la fatica di farsi capire la faccia lei!

Non sara’ per il puro gusto della diversita’ che, in una raccolta di nobili pensieri sulla parola, arriva un elogio alla parolaccia. Immagino sia stata questa la reazione piu’ benevola al mio titolo. Tra le altre: come si puo’ elogiare la parolaccia, che ha contaminato i giornali, la tivu’, il linguaggio comune? Non avra’ mica figli questo qui, non dovra’ combattere le loro litanie contro i professori crudeli, i compagni bacchettoni, l’allenatore fascista, etc. Piu’ semplicemente: la potenza comunicativa della parolaccia e la sua diffusione in ogni ambito sociale, culturale e professionale mi pare meritino qualche considerazione.
Non azzardero’ qui un’analisi socio-linguistica della parolaccia, in particolare dei suoi aspetti negativi: dei casi in cui da’ realmente fastidio, quando e’ usata per offendere, quando e’ sintomo di disagio sociale, di pochezza intellettuale, quando insomma e’ specchio di ben altri problemi. Mi limitero’ a un’osservazione di costume, relativa soprattutto ai casi in cui, completamente desemantizzata, spogliata del ruolo di significato riferito a un vero e proprio significante (pensiamo al tanto di moda “az”), perde ogni carattere di volgarita’ per assumere un valore di puro divertimento, di formula piu’ simpatica e incisiva per comunicare.
Pensiamo alla politica, per esempio alla mitologia del “celodurismo”; pensiamo alla canzone, dallo storico “per i ladri e le puttane sono Gesu’ Bambino” di Lucio Dalla fino al catartico “Vaffanculo” di Masini, e oltre. Pensiamo alla letteratura, che offre esempi anche piu’ nobili. Molto prima delle “Storie di ordinaria follia” di Bukowsky, ecco il piu’ famoso verso dell’Inferno, censurato da tutti i professori, ma stampato come un’epigrafe nella memoria degli studenti: “ed elli avea del cul fatto trombetta”. La citazione dantesca, da cui potremmo risalire per trovare splendidi esempi nella letteratura latina o greca, serve qui a sostenere la tesi: viva la parolaccia, quando aiuta a esprimere un concetto. Senza abuso, senza volgarita’, ma anche senza falsi pudori. Il nostro linguaggio e’ cosi’ felicemente ricco di parolacce! Dal punto di vista relazionale, quasi, si potrebbero considerare l’indice della cordialita’ e della confidenza tra le persone. Spesso vengono prima dell’aperitivo, quasi sempre prima del tu.
Le usiamo nel lavor per impartire un ordine, rafforzare un augurio, scongiurare un pericolo, per commentare la pigrizia del collega, la conferma tanto attesa, la rampogna del capo (“rampogna”? meglio “cazziatone”). Oggi le usiamo abbastanza liberamente anche con i genitori, che abbiamo cominciato a educare intorno ai nostri sedici anni, con i fondamentali (casino, ciula, pirlata, etc.), e che ormai costellano i loro racconti delle assemblee condominiali o delle code al supermercato con energici “quello stronzo, quel rincoglionito, m’han fatto due palle”, etc. Le usiamo con i nostri figli, per avvicinarci a loro, per rallegrare ai loro occhi la nostra immagine, spesso indurita dalla poca frequentazione. Che orgoglio, poi, quando anche loro le usano a proposito! (Ricordo con tenerezza mia figlia, due anni, sul lungomare di Celle: dopo giornate inutilmente spese a familiarizzare col mare, finite sempre in strazianti suppliche di allontanamento, al primo giorno di brutto tempo, quindi senza il tormento degli esercizi con le onde, si piazzo’ di fronte al mare a gambe larghe, come per urlare piu’ forte, e con inusitata baldanza tuono’: “Mare, vai a tadare!”. Oggi e’ tenerezza; allora fu grande soddisfazione.) Le parolacce, insomma, fanno parte di quel sotto-linguaggio che ci divertiva molto, da piccoli, ricercare nel vocabolario, ma che oggi ci imbarazza ancora utilizzare nelle occasioni piu’ ufficiali.
Non ci vorra’ molto, pero’, perche’ esse acquistino pubblica dignita’ e raggiungano – se lo meritano – ogni nobile forma di espressione. Allora lo spregiativo “parolacce” restera’ solo come ruvida e pregnante nota di colore.