per una nuova cultura della comunicazione

Comunico - Numero 7

A...mare

Ho trascorso mezza esistenza sul mare. No, non sono nato a Genova, Napoli, Venezia, Trieste. Sono nato a Milano. Puo’ apparire strano, ma Milano e’ una citta’ di gente che ama il mare; e’ la citta’ che da’ il maggior numero di soci alla Lega Navale Italiana e io, da buon milanese, ho sempre adorato il mare. Il mare e’ stato un amico, un confidente al quale narrare storie e pene d’amore nelle stellate notti estive ma, soprattutto, e’ stato un maestro di vita. Saper navigare!
E’ una metafora usata da molti, ma chi sa realmente navigare? Non certo gli armatori – passeggeri che stanno sui loro yacht senza toccare ne’ una scotta ne’ il timone. Io so navigare! Ho sempre avuto barche, fin da bambino, un guscio di noce buttato nell’acqua rappresentava la felicita’. Sull’acqua non esiste l’immobilita’ assoluta, non ci si puo’ fermare. Non esistono regole sicure, come nella vita. Ogni volta bisogna decidere partendo da zero. Sul mare si avventurano i popoli liberi, forse perche’ gli spazi aperti, gli orizzonti lontani, hanno sempre dato all’uomo un gran senso di liberta’, ma l’uomo che va per mare deve avere un rapporto corretto con la natura e conoscere bene i suoi elementi, l’acqua, il sole, le nuvole, il vento, analizzarli e rispettarli e poi prendere le decisioni. Il momento delle decisioni e’ il momento piu’ importante della nostra esistenza. Dalle nostre decisioni dipendono la felicita’ e l’infelicita’, la ricchezza e la poverta’, le amicizie e la solitudine. Negli affari una decisione e’ tutto. Come quando i Bollettini sono buoni ma le nuvole si fanno minacciose e il vento rinforza e tu, guardando il mare, ti chiedi “..esco o non esco?”

Trent’anni di soddisfazioni, di successi, di denaro. Poi, la crisi. Per Renato, autore di jingle pubblicitari, le vie della creativita’ sembravano essersi chiuse per sempre. Finche’, una sera, lesse qualcosa sul mare…

Renato attraversava uno dei periodi di ispirazione-zero che puntuali flagellano le vite degli artisti. Sono quei mesi (a volte anni) in cui le meningi reagiscono come un limone spremuto e non c’e’ verso che permettano di scrivere, disegnare o comporre alcunche’. E dire che le cose gli stavano andando bene. Benissimo. Una moglie stupenda, due figli intelligenti e in salute, un ottimo giro d’affari fatto di note, spartiti e melodie. Componeva musica da quando era quindicenne, cioe’ da trent’anni. Gli studi al Conservatorio gli avevano schiuso il mondo del pentagramma con insperata generosita’. Aveva fatto strada grazie ai jingle, ossia ai ritornelli degli spot pubblicitari, ma si dilettava pure di operette e canzoncine varie. Nel mondo della musica il suo nome era il piu’ noto fra i meno noti, e cio’ gli faceva un immenso piacere perche’ della popolarita’ finiva per dargli soltanto i lati positivi. L’incubo, come sempre, era iniziato sul momento piu’ bello, ossia quando si era comprato una casa con veranda sul mare. Da li’ in avanti la sua creativita’ si era inceppata, di punto in bianco, come per un incantesimo. Pur con tutta la buona lena non era piu’ riuscito a produrre nulla, nemmeno una nenia da intervallo radiofonico. Il clima della riviera, poi, aveva persino aggravato il problema, con una spiaggia da paradiso che avrebbe strappato agli spartiti il piu’ stakanovista dei Salieri. Tuttavia proprio dalla battigia comincio’ la sua risalita. Mentre sedeva sulla riva nell’ennesimo tentativo di schiarirsi le idee, una sera gli torno’ l’ispirazione. Oddio, ispirazione… Diciamo che un motivetto prese a frullargli in capo, ma non per merito suo. L’aveva letto sull’acqua. Letto, si’.
Si era messo a fissare l’orizzonte a mo’ di sentinella, tenendo l’occhio sulla fascia fosforescente che i raggi della luna dipingevano in mare. Tutt’a un tratto uno strano fenomeno aveva attirato la sua attenzione: le onde, cosi’ distanti, parevano disposte secondo le linee di un pentagramma. Sembravano proprio immobili, come in fotografia, quasi che un invisibile tessitore ne avesse bloccato le immaginarie estremita’. Su di esse, i riflessi della luna piovevano come tante note sortite da una penna prolifica e luminosa. La scena era bizzarra, ma gli aveva restituito un po’ di energia. Si era allora alzato in piedi e resistendo al senso del ridicolo aveva provato a stare al gioco e a “leggere”. E aveva scoperto che sull’acqua era effettivamente scritta una canzone. Elementare e abbozzata fin che si vuole, ma completa e anche orecchiabile. Mi si sol diesis mi si la in un quattro quarti da discoteca. Mi si sol diesis… Nient’altro che l’accordo di mi maggiore, l’ABC della musica da quattro soldi. Eppure il ritmo era scoppiettante e la melodia gradevole: un misto di classico e moderno con quel tocco di romanticismo che fa pulsare i cuori e scalare le classifiche. Aveva controllato numerose volte quel fazzoletto di mare, per verificare se fosse rimasto vittima di un prodigio o non piuttosto di un eccesso di fantasia, come se la sua repressa immaginazione avesse voluto riscattarsi d’un colpo propinandogli un’illusione degna di Houdini. Ma aveva dovuto accettare la strana realta’: le gocce di luna di cui aveva scorto gli sfavillanti segnali continuavano a cadere in acqua sempre negli stessi punti. Nessun abbaglio, nessun delirio. Ripassando freneticamente il motivetto si precipito’ in casa e, al pianoforte, ne verifico’ la funzionalita’. Mi si sol diesis, mi si la, mi si sol diesis, mi si la, mi si do, mi si do, mi si…. Cribbio, era… magnifico.

La riscossa
Guardava ancora il mare, pero’ questa volta dalla finestra di casa sua, e con un sorriso di gratitudine a squarciare due anni di malinconia. In mano, al posto dei granelli di sabbia, stringeva lo spartito della riscossa. Quello che l’acqua e la luna gli avevano suggerito. Era certo che non avrebbe mai saputo quanto di miracoloso c’era stato in quell’ispirazione: cinquemila anni di santi, poeti e navigatori dovevano per forza aver gia’ dato spazio ad altri “lettori” del mare, anonimi quanto lui e magari anche piu’ preparati. Preferi’ quindi farla breve e pensare a una coincidenza: prodigiosa, si’, surreale, senza dubbio, ma niente altro che coincidenza. Non avrebbe raccontato nulla a nessuno, ne’ alla famiglia, che era in vacanza dai suoi, ne’ a quanti avrebbero ascoltato il pezzo in avvenire. Tutto sarebbe rimasto un fatto privato fra lui e quel gigantesco elemento liquido con cui Dio aveva risposto alle sue preghiere.

L’apocalisse
Cosi’ Renato riprese a scodellare jingle come ai tempi migliori. I colleghi delle agenzie, che non avevano mai cessato di sperare in un suo recupero, si erano fatti prontamente risentire dandogli lavoro in quantita’. Una sera, pero’, un nuovo terremoto scosse la sua vita, e questa volta per sempre. Successe ancora in riva al mare, a pochi passi dalla stessa battigia su cui si era svolto il miracolo delle note. Renato vi si era recato con la moglie e alcuni amici per concludere una serata in compagnia: dopo un’abboffata di pesce alla brace, una schitarrata in spiaggia era parsa a tutti la soluzione migliore. Avevano cantato sino a oltre la mezzanotte, approfittando dello stato di grazia del musicista. D’un tratto qualcuno gli aveva chiesto di intonare l’ultimo pezzo che avesse compost una specie di album personale, di quelli che il fan di turno pretende sempre. Renato, dopo averci riflettuto brevemente, decise di intonare la “Canzone del mare”, come l’aveva chiamata lui: non era proprio la sua creatura piu’ recente, considerato il numero di stacchetti pubblicitari che l’avevano seguita, ma a essa aveva legato il momento piu’ bello della sua vita professionale, e ancor piu’ volentieri l’avrebbe interpretata li’, dinnanzi allo scenario che gliel’aveva suggerita. Riafferro’ pertanto la chitarra e inizio’ a strimpellarla. Ma dopo poche battute accadde l’apocalisse: dalla superficie del mare, agitatasi all’improvviso, sbalzarono tutti i pesci. Tutti, senza eccezione. Emersero a migliaia, vicini e lontani, a perdita d’occhio. La loro fu una comparsa spettacolare, roboante, come quella di tanti jack programmati per uscire all’unisono da un milione di scatole per bambini. E una volta fuori, dinnanzi alla folla atterrita iniziarono… a ballare. Nel caos che segui’ nessuno riusci’ a capire che cosa stesse accadendo. I piu’ scapparono, altri si rifugiarono nelle cabine, altri ancora retrocessero gridando e barcollando per la paura. Il nostro amico, dapprincipio non immune allo sbando collettivo, smise di suonare e mosse qualche passo all’indietro, d’istinto. Tuttavia un’insperata forza interiore gli permise di mantenersi calmo e di capire che fra quella surreale eruzione ittica e la canzone il legame non era affatto casuale. Appena la chitarra aveva taciuto i pesci si erano infatti bloccati: ritti sulle pinne, in chissa’ quale equilibrio sulla superficie del mare, immobili come tanti pupazzi elettronici cui da un momento all’altro e’ stata tolta la corrente.
Quindi, mentre gli amici e i passanti si ostinavano nella loro fuga, Renato capi’ che quanto stava avvenendo non aveva proprio nulla di straordinari semplicemente, quella canzone non apparteneva ne’ a lui ne’ al repertorio umano, ma a una specie animale (i pesci) che vi riconosceva qualcosa di suo. Un inno, forse, o un leit-motiv. Un brano comunque millenario, magari coreografato da Nettuno o dalle sue sirene, e del quale finalmente l’esecuzione umana infrangeva il tabu’. Per cui, a ben guardare, non c’era nulla da temere. Ignorando le grida della moglie, che lo implorava di precipitarsi in casa, Renato torno’ dunque a suonare. Assistette estasiato alla ripresa del ballo dei pesci: danzavano tutti, grandi e piccoli, pacifici e feroci, molluschi e cetacei, in un’inedita alleanza che pareva aver cancellato d’un colpo le leggi del piu’ forte. Sciorinavano un’insospettabile padronanza di stile, dal charleston al tip-tap, mentre dal fondo delle acque ne sbucavano sempre di nuovi, come se la musica si propagasse di un’eco silenziosa e inarrestabile. Lo spettacolo duro’ fino a che Renato ebbe la forza di tirare avanti. Poi l’emozione colse anche lui, costringendolo a fermarsi e rilassarsi sulla sabbia; cessata la musica, nel silenzio del paese ormai deserto, i pesci si inabissarono di colpo, lasciandolo con l’occhio sbarrato sull’orizzonte. Dove la luna, imperterrita, disegnava ancora il suo mi si sol diesis.

Dai pesci agli uomini
Che cosa avreste pensato voi, davanti a una scena del genere? Forse niente. Invece Renato, cui la prontezza di spirito certo non mancava, riusci’ a rimettersi in fretta e a chiarirsi le idee. Quello che aveva visto era ancora piu’ straordinario di un ballo di pesci: era il primo vero atto di pace universale che il mondo avesse testimoniato. Specie marine che sino a qualche minuto prima si erano trucidate senza pieta’ avevano appena finito di giocare con infantile innocenza. Di giocare, capite? Di tenersi per mano (pardo’n, per pinna) con l’entusiasmo di una rimpatriata di liceo. Le lotte per la sopravvivenza che da che mondo e’ mondo immolano i pesci piccoli tra le fauci dei loro simili parevano d’un tratto il brutto ricordo di un’era lontana. E tutto per merito di quelle note che stavano scritte sulle onde dalla notte dei tempi e che a lui, Renato, era toccato tradurre in musica.
La domanda, a quel punto, scaturi’ spontanea: e’ possibile raggiungere lo stesso traguardo con gli uomini? E’ possibile comporre una melodia che li metta d’accordo una volta per tutte e ponga l’agognata fine a guerre, violenze e soprusi? Si’, penso’ Renato. E’ possibile, a patto di decifrare sulla terra, ossia sull’habitat umano, gli stessi segnali che erano incisi sull’acqua. Facile, a dirsi. Pero’ la terra e’ opaca. Non riflette nulla ne’ brilla di luce propria. Come fare, quindi, a scorgervi tracce luminose che non dipendano dall’intervento dell’uomo? Inseguendo questo pensiero in liberta’, senza preoccuparsi della sua sensatezza, Renato inizio’ lentamente a dirigersi verso casa. Aveva appena attraversato la strada quando il passaggio di una lucciola gli diede la risposta che cercava.

Novello incantatore
La pineta era vicina. Tanto, che per raggiungerla gli fu sufficiente deviare di qualche metro. In giro era il sol gli altri erano barricati in casa nel timore che i pesci invadessero il mondo. Una sorta di tacito coprifuoco di cui l’inconfessato responsabile era lui. Una sfilata di lucciole si dipano’ festosa al suo ingress decine di minuscoli lumi a intermittenza inchiodati al nero fondale della notte. Il nostro amico estrasse la carta e la penna da cui per fortuna non si separava mai. Provo’ a immaginarsi un pentagramma da sovrapporre allo scorrere degli insetti, e comincio’ a scrivere. Trovo’ il compito piu’ difficile del solito, perche’ le lucciole sembravano cambiare sempre posizione, tuttavia la bravura nel solfeggio lo aiuto’. Gli animaletti apparivano e scomparivano senza posa, come minuscoli fuochi artificiali. Seguirne una presunta logica musicale pareva pazzesco, e probabilmente lo era: ma in una notte in cui gli oceani si erano tramutati in piste da ballo, i pesci in tanti virtuosi della danza e gli uomini in altrettante marionette in fuga non sarebbe stato strano scoprire nelle lucciole una stirpe di musicisti. E infatti, da quella specie di spartito cui la fantasia di Renato le avvinghiava sorti’ una perfetta melodia in chiave di sol: fa la do re fa la do re do sol re do sol fa… Bellissima anche questa. Trascinante. Irresistibile. Il novello incantatore indugio’ a lungo prima di tornare sui suoi passi. Ebbe paura: il ruolo di artefice di un’altra eta’ dell’oro inizio’ a schiacciarlo come una pressa. I foglietti che teneva in mano contenevano la ricetta del nuovo Eden, il definitivo riscatto dell’umanita’ contro il male. Da li’ in poi il suo nome sarebbe stato citato accanto ai grandi della Storia, immortalato su lapidi, epigrafi, statue. Troppo, per un mite pubblicitario che alla vita aveva chiesto solo un lavoro e una famiglia. Quando pero’ si accorse che le lucciole insistevano a riprodurre i loro segnali negli stessi punti, proprio come la luna di qualche settimana addietro, si risolse ad accettare l’inevitabile. E rincaso’.

L’ultimo miracolo
La sonata, eseguita al pianoforte di fronte a una moglie ancora scossa, non tardo’ a manifestare i suoi effetti. Di colpo la consorte si trasfiguro’: la tensione le si sciolse in un sorriso estatico, quasi fosse di fronte a un’apparizione mistica. Le lacrime scomparvero d’incanto, e quando si mise a ballare sembrava persino ringiovanita. Fuori, al di la’ della veranda, si verifico’ un miracolo ancor maggiore. La gente, richiamata dalla stessa misteriosa eco che aveva mobilitato i pesci, si addenso’ sulle strade danzando all’impazzata. I bambini con i genitori, i ragazzi con le fidanzate, gli anziani con i figli e i nipoti, ma anche i conoscenti, gli sconosciuti o addirittura i nemici dichiarati che sino all’attimo prima si erano odiati o combattuti. Tutti in piazza, tutti in pista, a consegnare per sempre i propri rancori e le proprie indifferenze alla ciclopica forza di quelle note.
Da quel giorno il mondo visse in pace. Mai piu’ guerre, ne’ battaglie, ne’ scaramucce. La canzone magica si propago’ per tutto il pianeta, contagiando uomini e donne di ogni razza e nazionalita’. Ne vennero incise e distribuite miliardi di copie in tutte le case, cosi’ da calmare i nervi ogni volta che ce ne fosse stato il bisogno. Le vicende umane si fermaron il sangue che ne aveva marchiato il decorso per cinquemila anni smise di scorrere cancellando per sempre rivalse e crudelta’. Gli Stati abbatterono le frontiere, sciolsero gli eserciti e devolsero ai poveri il loro sovrappiu’. Cosi’, in breve tempo anche la fame e la miseria sparirono dai vocabolari e dal destino dei popoli. E Renato? Di lui non si e’ saputo piu’ niente. Coperto di gloria come a nessuno era mai toccato, decise di ritirarsi a vita privata. Rimase per sempre nella sua casa al mare, dove ogni tanto riceveva le visite di ammiratori, ministri e re. Qualcuno dice di averlo visto poche sere fa seduto in veranda a scrutare il cielo e scrivere qualcosa su un foglio. Dopotutto l’universo e’ grande, pieno di creature che vorremmo conoscere e fitto di stelle da cui trarre canzoni, concerti e sinfonie. Ma questa e’ un’altra storia.

Mi occupo di comunicazione dagli anni ’70. Ho avuto posizioni di responsabilita’ presso grandi, piccole, medie aziende e sono stato, per anni, ai vertici delle piu’ note associazioni. Ho parlato con tutti quelli che potrei definire i “Capitani di lungo corso” della comunicazione. Oggi sono convinto che il mare in cui si naviga sia molto cambiato. Nessuna rotta certa, bussole spesso impazzite, frequenti tempeste alternate a momenti di calma, seguiti da nuove tempeste. Eppure continuo a navigare affascinato da questo mare e continuo a cercare il “nuovo mondo”. Vorrei spiegare, soprattutto ai giovani, “la classe dirigente del 2000” alla quale cosi’ spesso si rivolge COMUNICO, la mia esperienza in poche righe. Ritengo, infatti, che, sapere come si navigava negli anni ’70 o ’80, sia piu’ o meno come conoscere la rotta di Cristoforo Colombo, importante per la cultura, ma scarsamente utile per il nostro lavoro futuro.

Dal “come” al “cosa”
Il professionista della comunicazione e’ passato, in questi anni, da un ruolo di consulente a un ruolo altamente strategico. Dal consigliare “come dire le cose”, al consigliare “cosa dire”. E’ ovvio che su una barca a vela che attraversa l’oceano non c’e’ posto per i “fighetti”, per coloro i quali hanno paura di sporcarsi le mani. Oggi il professionista della comunicazione deve prendere si’ il timone, ma deve saper passare dal timone alle scotte e anche saper dare una bella lavata al ponte. Non piu’, quindi, manager pronti a prevedere il futuro, ma abili nocchieri capaci di governare la loro barca su un mare imprevedibile, capaci di procedere nella calma piatta e nella tempesta.

Una leadership del tutto nuova
L’obiettivo non sara’ vincere una regata, ma arrivare ogni sera sani e salvi in un porto, per riprendere il mare aperto la mattina successiva. Credo che l’era dei “guru” sia scomparsa per sempre. In barca non c’e’ spazio per le filosofie e colui il quale non vuole sporcarsi le mani e’ presto sbarcato. Come sulla barca, cosi’ nella comunicazione conta l’intero equipaggio, il lavoro di squadra. Il vero skipper non critica, non condanna, non recrimina, e’ prodigo di apprezzamenti onesti e sinceri e si interessa della salute fisica e psichica del suo equipaggio. Sulla barca della comunicazione non sono disprezzate le tecnologie, ma c’e’ bisogno soprattutto di intelligenza. Quello che reputo piu’ importante e’ un cambiamento di cultura. Va, infatti, rivisto completamente il concetto di leadership, base della nostra formazione culturale. Non credo, che nel grande caos del mare della comunicazione, l’equipaggio debba costantemente affidarsi alla visione del capo carismatico, che da ordini con saggezza e con inflessibilita’, mantenendo sotto il suo occhio esperto la rotta. Ma e’ l’equipaggio che, avvicendandosi al timone, decide, anche in condizioni di enorme turbolenza, la sequenza di azioni necessarie a sopravvivere e lo fa con spirito di gruppo, con autocoscienza e autoorganizzazione. L’unico elemento necessario per questo equipaggio e’ la coesione, cioe’ la somma delle qualita’ dei singoli che sara’ sempre maggiore delle qualita’ individuali.

E la “cultura d’impresa”?
Questo modello organizzativo e’ fortemente condizionato e contrastato dalla cosiddetta “cultura d’impresa”. L’imprenditore, infatti, mai e poi mai vorra’ lasciare il timone agli altri, a costo di finire sugli scogli o, peggio, naufragare. Ho fatto un’ottima esperienza di navigazione con gli allievi dell’Istituto Superiore di Comunicazione di Milano e mi sono convinto che un equipaggio composto di persone a “pari grado” puo’ funzionare alla grande. Non parlo di didattica ne’ di accademia. Abbiamo lavorato per clienti reali e, quindi, navigato realmente sul grande mare della comunicazione senza organigrammi ne’ gerarchie e senza che nessuno giocasse ai soldatini, mettendosi in testa il cappellino da ammiraglio o la feluca da commodoro.

Fuor di metafora
E, ora, per concludere, al di la’ delle metafore, un consiglio per chi vuole gestire un’impresa: imparate a navigare. Capirete perche’ le leggende del mare narrano di mostri e di sirene, perche’ una navigazione non e’ mai tranquilla, proprio per questo e’ splendido navigare. L’impresa e’ come la barca: attraversa momenti di calma piatta, buon vento e tempesta, bisogna quindi saper tenere ben salda la barra. Non c’e’ futuro per chi vuol solo giocare ai marinai. Il mare non perdona!

Proprio quando il rapporto col mare sembrava incrinato per sempre, da una scelta di vita differente e’ nata una nuova amicizia. Piu’ consapevole

Ci sono tipi da mare e ci sono tipi da montagna. Ci sono tipi da mare attivi, ci sono tipi da mare passivi e contemplativi. Io appartengo, da un po’ di anni a questa parte, a quest’ultima specie. Prima era diverso, ero anch’io un tipo attivo. Io e il mare andavamo molto d’accordo, mi immergevo in lui e nuotavo senza paure e difficolta’ e se avessi potuto avrei praticato molti sport. L’attivita’ subacquea era quella che mi attirava di piu’ perche’ era legata alla dimensione nascosta del mare, alla piu’ silenziosa e struggente, alla scoperta dei colori e alle emozioni piu’ forti. Poi grazie a quelle maledette o benedette vertigini d’acqua ho dovuto cambiare approccio e a mio modo riconquistare il mare, corteggiandolo, prima da lontano, poi accostandomi a lui con timore, rispetto reverenziale, scoperta. Oggi siamo diventati ancora amici. E’ successo quella volta, molti anni fa, in Indonesia, nell’isola di Bali quando era ancora un paradiso per gli amanti dell’esotico, della natura e delle culture orientali. In quel luogo incantevole il mare ha tradito la mia fiducia e mi ha, tutto a un tratto, respinto, facendomi provare l’orribile sensazione delle vertigini d’acqua. Avevo circa vent’anni e a quel tempo il mare era legato solo alla possibilita’ di nuotare e di prendere il sole. Un modo superficiale di amarlo. E forse, per questo, lui si e’ ribellato.

Le vertigini d’acqua
E chi ne aveva mai sentito parlare! Non conosco, per fortuna, le piu’ consuete vertigini da montagna, quindi non ho metri di paragone. Ricordo solo che nuotavo in una pozza di acqua alta, rara in quel tratto di barriera corallina, e ho sentito un forte risucchio, un vortice sotterraneo nel quale ho pensato di sprofondare. Come quando nel pieno della notte, dentro un sogno agitato, ti senti afferrare e portare giu’, sempre piu’ giu’ e poi ti svegli tutta sudata. Ho riprovato piu’ volte a combattere quella sensazione a prezzo di fughe concitate verso la riva. Poi ho dovuto accettare la realta’: io e il mare non eravamo piu’ fatti l’uno per l’altra. Era inutile insistere.

Niente piu’ mare
Ho cominciato quindi a cambiare tipo di vacanza. Che ci vai a fare un mese al mare se hai una folle paura a starci dentro? La paura del mare mi ha portato a viaggiare moltissimo, ho scelto altre mete, ho soddisfatto i desideri intellettuali, la scoperta delle grandi citta’ del mondo. E il mare, alla fine di ogni vacanza, mi mancava da morire. Ho cominciato cosi’ a corteggiarlo ancora a distanza, e ad amarlo in modo nuov in inverno, alle Cinque Terre, durante quelle mareggiate cosi’ forti che ti mozzano il fiato solo a guardarle, in estate nei posti piu’ freddi e impervi della Bretagna, della Cornovaglia o del Maine. E poi ancora ai tropici, in quell’acqua cosi’ bassa e calda che ti invita solo a cullare il corpo e la mente. E cosi’ senza paura ho iniziato, seppur dalla riva, a riprendere la confidenza di un tempo, a capirlo di piu’, a distinguere i suoi profumi, i suoni, le voci portate dal vento. A ritrovare la sintonia di un tempo, in eta’ piu’ adulta e consapevole.
Oggi ho imparato a convivere con il mare in modo nuovo. E’ lui che rimette in sesto i miei equilibri interiori e che mi aiuta a trovare serenita’ e risposte. Per tanti anni, nei fine settimana, ho corteggiato il mare da Corniglia, alle Cinque Terre. E’ un luogo raro, ricco di fascino e magia dove si combinano in modo unico la forza e la poesia del mare e della natura. Anche se sa di masochismo, adoro i suoi scogli un po’ scomodi e poco frequentati, mi immergo in quell’aura magica regalata dall’incontro del mare con le colline coltivate a terrazze alle spalle. Mi accompagna sempre un libro che magari non leggo neppure, distratta dai colori del mare o da quella strana sonnolenza sconosciuta in citta’. E poi ci sono gli amici, passivi e contemplativi come me, con i quali programmare la cena serale, chi cucina, chi fa la spesa, su quale terrazzo vista mare si puo’ cenare. In estate, mi accontento di un po’ di nuoto, il piu’ vicino possibile alla riva o al massimo un po’ al largo ma solo con le pinne e mai da sola. Si’, al largo, ma con qualcuno a cui appoggiarmi in caso di necessita’. L’indipendenza totale che da sempre accompagna la mia vita non si addice piu’ al mio rapporto con il mare. Io e il mare abbiamo continuato per anni ad annusarci a distanza in un gioco di attrazione e ripulsa.

Dal mare, i regali piu’ belli
L’anno scorso a Filicudi, nell’isola delle Sirene temute e amate da Ulisse, e ancora non so perche’, io e il mare ci siamo rimessi insieme. Abbiamo fatto pace. Forse perche’ io avevo ormai imparato, standone a distanza, ad apprezzarlo in modo nuovo, a comprenderlo. E lui, in tutti questi anni, ha ricambiato la mia pazienza con doni inattesi. Con quelle emozioni indescrivibili, dalla prua di una nave, di fronte a quel branco di delfini e ai pesci volanti nel Mar della Sonda. Quelle tartarughe grandi come una Fiat Panda sbucate da una spiaggia della Malesia. E dal mare, da quello piu’ vicino a noi, quello del Salento, sono arrivati i regali piu’ belli: gli amori e gli affetti piu’ profondi: l’amica del cuore, il compagno ideale di vita, e un bimbo venuto dal mare per dare il senso piu’ vero e profondo alla mia vita. Chissa’ se tutto e’ partito da quelle maledette e benedette vertigini? Io credo di si’. Grazie mare.

Prendere degli oggetti dal mondo e restituirli al mondo, trasformati. E’ il lavoro dell’artista, in continuo movimento, come le onde del mare. Un mare che ricorda e che dimentica, che distrugge e che crea

Ho sempre raccolto conchiglie, e piccoli sassi dai colori pastello. Ogni estate dacche’ ho memoria di me. Passavo quasi tutto il tempo in cui non ero in acqua, che pure e’ sempre stato un tempo assai cospicuo, a schiena china a interrogare la riva. Questa azione di raccogliere dalla sabbia qualcosa e’ davvero la sola mia azione identificativa. Al di fuori di qualunque studio sociologico la mia identita’ da quando avevo quattro anni ad oggi, che ne ho trentasette, e’ questa. Chi e’ Teresa? E’ una che raccoglie le conchiglie. Sono consapevole di avere una identita’ assai esigua, talmente stagionale essa e’, ma tant’e’. Negli anni e’ andata assai specializzandosi questa azione. Infatti da piccola amavo gli oggetti perfetti: conchiglie intere, sassi piccoli e colorati, cercavo attorno a me delle qualita’ chiare, distinte, facilmente identificabili. Anche misteriose, purche’ quel loro mistero fosse chiaro. Imponderabile punto e basta. All’epoca, parlo degli ultimi anni ’60 e primissimi ’70, ancora si trovavano delle piccole conchiglie dal guscio tondo e scuro, appena macchiettat erano assai belle. Le stringevi nel pugno ed esse si nascondevano con facilita’ dentro quella stretta: sono le stesse conchiglie che, molti anni dopo, ho rivisto in Niger, in Africa centrale, al collo di molti bambini, come amuleto. Li’ per li’ non ci ho fatto caso ma piu’ tardi, pensandoci, ho realizzato che in Niger non c’e’ il mare, e forse e’ per questo che considerano magico, e quindi propiziatorio alla vita, una cosa che viene per loro da cosi’ tanto lontano. Cosi’ lontano da sembrare irraggiungibile; ma non per quei loro bambini. Ed e’ forse questo l’augurio; che quei bambini riescano ad arrivare lontano, almeno tanto da vedere il mare. Io le ho strette a lungo nel pugno quelle conchiglie, per me erano certamente magiche ma per altre ragioni di quelle che ho imparato da adulta.

… che ascolta le loro storie
Per me le conchiglie raccontano le storie. Sono voci, pensieri imprigionati o perduti in spirali da cui escono a fiotti, tutti insieme. Cosi’ accavallati da non potersi distinguere. Le conchiglie sono stati i primi libri che ho tenuto in mano. Libri piccolissimi, bianchi, rosa, lisci o aggettanti su un asse invisibile e poi, qualche volta, piu’ grandi, piu’ complessi nella struttura e molto rumorosi di onde. Mi piaceva anche che erano arrivati da lontano, che si erano formati altrove. Che avevano viaggiato. Che ce l’avevano fatta a trovare un lembo di sabbia dove approdare. E io li raccoglievo, li sottraevo per sempre al loro ritorno al mare. Anche se non sono mai riuscita a sottrarli alle ondate, devastanti, di riordino della casa, che mia madre faceva alla fine di ogni estate. Poi, crescendo ho raccolto sempre piu’ sassi e sempre meno conchiglie. Mi piacevano quelli un po’ grandi, con delle linee piu’ scure o piu’ chiare che formavano come dei disegni, delle lettere, delle piante geometriche. Ero colpita allora dalla quantita’ di astrazione che si produce per caso, dalla quantita’ di significazione sotto i nostri piedi che non sanno leggere, e dalla pulizia di queste linee, dalla perizia grafica dei detriti e dei sollevamenti tettonici e dell’azione erosiva del vento e del mare. E raccogliere le pietre era per me raccogliere tutte quelle cose con un unico gesto, in una contemporaneita’ affascinante.
Poi, alcuni anni fa, sette, ho cominciato ad interessarmi di nuovo alle conchiglie. Ma questa volta ai loro frammenti. Avevo allora da poco lasciato la casa dei miei genitori e cambiato mare. Da allora raccolgo ogni estate relitti di conchiglie spiraliformi. Pezzi leggibili di grandi conchiglie arenate alla fine dell’inverno sui tanti scogli affioranti davanti alle spiaggie dello Jonio. Sono pezzi bianchissimi di calcare e di sale. E da allora anche e’ accaduta una cosa che non era mai stata. Ho preso a incollare quelle conchiglie su grandi pezzi di carta insieme a colori a parole a figure delicate. Mi servo di loro per esprimere i miei sentimenti: la paura, il desiderio, la nostalgia, il bisogno di mettermi a correre forte e veloce. Per me quei gusci sono parole disperse. Sono oltre 30 anni che raccolgo conchiglie, ma, da relativamente pochi, ho iniziato a restituirle. A un mare diverso, su una riva impensabile.

… che le incolla sulla carta
Su un foglio di carta costruisco e incollo. Determino una relazione fra cose che non hanno mai avuto alcuna parentela, nessuna prossimita’. Se non nella grana della loro materia, se non nei loro reciproci colori, se non nel loro valore simbolico ed evocativo. Incollo pezzi di conchiglie su pezzi di carta. Forse con quello voglio raccontare a me stessa tutta la storia che quella conchiglia portava prima di essersi andata a frangere contro l’elica delle grandi navi che ogni giorno vanno e vengono dalla Grecia e, subito dopo, sullo scoglio dove e’ stata trovata. Forse da alcuni anni ho preso a interrogare i gusci, le antiche corazze di questi animali marini, perche’ esse sono metafore di altri corpi di altre battaglie, di altre perdite e smarrimenti. Di altri silenzi giganteschi. E’ il mio modo di essere vicina al niente, sulla sua riva, e di non impazzire per questo.
Certamente il mare a cui rivolgo le mie coraggiose ma fragilissime rive di carta non e’ bello e verde e luminoso e immenso come quello che io, che noi, conosciamo, ma, come quello, sembra non finire mai e non darsi mai una terra, una volta che hai cominciato ad andare e hai cominciato a mettere a frutto tutto quello che sai su come navigare. Forse e’ accaduto che la conchiglia che ho raccolto, rotta, sulla riva, e che ho ricomposto, in un nuovo ordine e dentro una nuova emozione e un nuovo linguaggio all’interno del foglio, e’ tornata parola, racconto, storia. E una volta che questo e’ accaduto ora appartiene al suo mare, quello della storia degli uomini: piu’ oscuro, piu’ profondo, piu’ agitato, piu’ tragico, di quello vero. Mi auguro che queste conchiglie ricomposte abbiano ancora la fortuna di trovare e di abbandonarsi all’onda che sente la riva e si concentra e solleva subito prima di essa. E che li’ ci sia sempre una bambina intenta a raccogliere le cose piu’ strane che ha portato l’ultima mareggiata: una bambina di 4 anni o cento di piu’.

Onde che appartengono a un altro tipo di mare. Le onde corporee di ciascuno di noi interagiscono tra loro, a un livello di comunicazione piu’ profondo e istintuale

Le onde sono il nostro destino. Veniamo dal mare, dai flutti imperiosi degli oceani, dove le onde dettano legge e danno la vita. Era milioni di anni fa. Eppure, ancora oggi, l’uomo della Luna e di Marte, il sacerdote dei microchip e dei satelliti, vive in un mare di onde. Non parliamo di quelle emesse da tv, microonde e telefonini: sono le “nostre” onde quelle che ci interessano. Sono le onde che ci permettono di comunicare a livello “sottile”, la’ dove per udire serve l’intuito, il cuore, il terzo occhio. Quando si dice sentire qualcosa “di pelle”.

Studiare l’energia
Anthony Walmsley lavora con questo tipo di energia e la studia da 15 anni. Lui e’ una sorta di “energy manager”, un ricercatore e maestro di T’ai Chi Ch’uan (l’arte marziale cinese la cui efficacia dipende proprio dall’emissione e dall’interazione di questo tipo di onde corporee) e di Chi Kung (l’arte del respiro che serve a sviluppare l’energia interna). “Tutti i sistemi tradizionali medici e filosofici orientali si basano sul principio di un’energia che scorre a onde”, spiega. “Per intenderci, e’ la stessa sfruttata dall’agopuntura o dallo shiatzu nella cura delle malattie. Studi occidentali hanno dimostrato che questa energia, che chiamiamo Chi (o Ki o Prana), ha caratteristiche elettromagnetiche. Il che non significa che sia elettromagnetica. Pero’ ci somiglia. Tanto che elettrodi a basso voltaggio permettono di individuare i punti dell’agopuntura. Ebbene, queste onde non scorrono solo dentro il corpo, ma anche fuori, formando un involucro elettromagnetico”.
Onde dentro, onde fuori. Nel gergo comune si parla di “impatto” con una persona. O di simpatia (o amore) a prima vista. “E’ l’interazione di queste onde elettromagnetiche che determina la simpatia o l’avversione per una persona”, prosegue Walmsley. “A seconda se le nostre onde elettromagnetiche si equilibrano o meno con quelle dell’altro, questi ci sembrera’ gradevole o antipatico. Non si dice di una persona che e’ “elettrizzante”? Tempo fa leggevo di un fedele di padre Pio che raccontava di un incontro avuto con il famoso frate: “Gli toccai la veste e sentii come una scossa”. Tralasciando l’aspetto religioso, la teoria dell’energia da’ una interpretazione: un famoso maestro cinese, dottore in Fisica e ingegnere elettromeccanico, Yang Jwing-Ming, spiega che il cervello e’ capace di lavorare con una corrente elettromagnetica 12 volte piu’ alta di quella di ogni altra parte del corpo. Il suo sospetto e’ che le famose auree dei santi altro non siano se non il disturbo generato da questo accumulo di energia sulle molecole dell’aria vicino alla testa. Un accumulo reso possibile da tecniche di meditazione o dalla preghiera. E il “disturbo”, in certe condizioni di luce, si puo’ anche vedere”.

Comunicare a onde
Ebbene, seguendo le teorie della medicina cinese, se questa energia vibra, si manifesta, significa che puo’ interagire con le altre energie che incontra. Lo scrittore e antropologo Carlos Castaneda teorizza i mondi paralleli, una realta’ fatta di strati in cui vivono entita’ e corpi differenti dai nostri, ma che interagiscono con noi e tra di loro. Certo e’ che nel nostro mondo le energie possono interagire tra di lor quando due innamorati sono in intimita’ non si dice che i loro corpi vibrano? E, al contrario, la vicinanza di persone con cui si e’ litigato non genera fastidio fisico?
“Ho visto terapeuti emergere senza forze da sedute di shiatzu”, continua Walmsley. “Un sistema basato sullo scambio di onde energetiche. E ancora: esistono certe persone che hanno la capacita’ inconsapevole di succhiare l’energia altrui: chi sta intorno a loro e’ depresso e sfibrato, mentre loro, i “vampiri”, stanno benissimo”. Come i menhir. Certi studi hanno evidenziato che le misteriose stele dei bretoni sono vere fonti di energia geotermica: abbracciandoli, l’energia ci “carica”. Ma ne esistono altri che la tolgono come vampiri. Dunque i corpi e lo spirito comunicano in un mare di onde. Recenti studi medici americani hanno dimostrato che se uno e’ malato, e qualcun altro dall’altra parte del mondo prega per lui, quella persona ha maggiori probabilita’ di guarire piu’ velocemente di una per cui non si prega. Esistono statistiche e diagrammi in proposito su libri sorprendenti e laici come Il potere curativo della preghiera (Red) e Guarire con la preghiera e la meditazione (Rizzoli), scritti da Larry Dossey.

Energia che da’, energia che toglie
Ma, secondo la teoria taoista, come l’energia guarisce, cosi’ puo’ togliere la vita. “C’e’ un sistema di Kung Fu, sviluppatosi sulle montagne cinesi del Wudang”, conclude Walmsley, “che sfrutta a pieno l’elettromagnetismo corpore hanno scoperto, cioe’, che tramite un certo movimento delle mani (i magneti del nostro corpo), si puo’ disturbare il flusso di energia di un avversario e interrompere il collegamento tra il cervello e il suo sistema nervoso centrale. Senza toccarlo! Semplicemente muovendo le mani a livello dell’involucro di onde elettromagnetiche che circonda il suo corpo”. Favole? Vi assicuro di n chi scrive ha assistito in diretta a una dimostrazione. Per gli scettici viene in aiuto Internet: sul sitowww.ozemail.com.au/~taiji/ del grande maestro Erle Montaigue potete acquistare il video “Qi Disruption”. Udite, udite: funziona!

Il mondo visto da fuori e’ diverso dal mondo visto da dentro. Un pensiero semplice, ma che spesso ci sfugge. L’esempio del mare e’ evidentissimo

Scomodissimo. In una tremenda situazione di disagio, il pesce fuor d’acqua. Chissa’ perche’ si usa da sempre questa metafora per identificare quella sgradevole sensazione di non appartenenza, di vulnerabilita’ che tutti almeno una volta nella vita abbiamo provato – e che ricordiamo con terrore. Chissa’ perche’, al posto di come un pesce fuor d’acqua non si dice come un essere umano in fondo al mare. Probabilmente e’ perche’ la sorte del pesce ci preoccupa meno della nostra e il processo di identificazione con il malcapitato e’ piu’ lieve, ci colpisce poco. Il mare compare spesso nei nostri discorsi, nelle citazioni, oppure come termine di paragone, come esempi il mare e’ grande, a volte immenso, da’ un’idea di pulito, rigenerato, ed e’ sempre in movimento. Noi parliamo sempre del mare visto dalla superficie, dal nostro punto di vista che e’ – in questo caso letteralmente – superficiale. Perche’ ci sembra, il mare, di poterlo abbracciare con gli occhi, di coglierne in un solo sguardo tutta l’estensione e ci sentiamo onnipotenti. Dall’alto di una scogliera, oppure dal ponte di una barca, magari immersi nei colori del tramonto, inspiriamo una boccata d’aria, e l’odore acre della salsedine ci fa sentire forti, potenti. Un peccatuccio di superbia, innocuo, di cui non valutiamo abbastanza le conseguenze. Si’, perche’ il mare e’ un’altra cosa.

Visto da sotto
Visto da sotto e’ completamente diverso. Il mare e’ profondo. Sembra banale, ma pensare a una distesa piatta e’ ben altro dal pensare che il nostro mondo, sotto il limite dell’acqua, continua allo stesso mod ci sono le montagne, l’orografia marina e’ frastagliata dove le terre emerse lo sono ed e’ piatta, liscia o sabbiosa dove la terra lo consente. E’ una natura amica o pericolosa, a seconda delle condizioni. E soprattutto il mare, visto da sotto, e’ fermo. E’ l’estremo opposto. Chi va sott’acqua lo sa, cosa vuol dire trovarsi in un ambiente cosi’ diverso. Fermo dunque, nonostante le correnti (che ci sospingono silenziose), e poi denso, opprimente e’ il mare. Spesso non c’e’ abbastanza luce per vedere – puoi perdere il tuo compagno di immersione anche a pochi metri di distanza – e per scorgere qualcosa nitidamente devi concentrare lo sguardo, mentre tutto il resto del corpo fluttua immobile. Il mare da sotto fa paura, senz’aria, e’ angosciante perche’ ti fa sentire solo e indifeso, ma e’ meraviglioso, perche’ anche il piu’ piccolo corallo o il pesciolino piu’ curioso ti svelano un mondo ricco di misteri, di forme sconosciute e di colori, i piu’ vividi che tu abbia mai immaginato. Le cose viste da un’altra prospettiva sono bellissime, indescrivibili. Il prezzo da pagare per godersi lo spettacolo e’ spesso per alcuni di noi troppo alto. Dimenticare la propria onnipotenza, ancora piu’ enfatizzata oggi dalla tecnologia, e accettare la sfida, col timore di non essere all’altezza. Un salto senza rete.

Caduti nella rete
Proprio alla rete io volevo arrivare. All’idea che oggi si ha del villaggio globale: un mare di informazioni in cui siamo soliti navigare, pescando ovunque le notizie piu’ strane. In questo caso il linguaggio “marino” serve per nascondere i complicati processi informatici mediante i quali riusciamo a far viaggiare una quantita’ pazzesca di parole, immagini e suoni: una metafora che ci da’ la gradevole impressione di saperci sempre orientare. Il navigator e’ la nostra lanterna nel buio, che ci conduce al sicuro proprio in quel luogo dove ci si perde, dove si diventa naufraghi, cioe’ il mare aperto. Tutta questa sicurezza mi spaventa. Si, perche’ spesso le situazioni troppo certe o scontate rivelano degli abissi di incertezza che non si vuole esplorare, che la societa’ cerca di rimuovere, troppo profondi o pericolosi tanto da fare paura. E mi accade una cosa strana. Curiosa, un po’ intrigante e con una vera e propria passione per lo scambio e il confronto con le persone, avevo con entusiasmo accettato l’idea di una rete che mi unisse piu’ saldamente con tutto il resto del mondo. Una strada piu’ rapida per uscire dai confini di questa Milano cosi’ provinciale e di maniera, una risorsa vastissima, per ottenere un mare di informazioni necessarie.
Ecco il punt necessarie a cosa? Al lavoro, certo. Un esempi duecentomila siti internet sulla melagrana. Frutto interessante, ma la mia ricerca sulla mitologia antica (la bella Persefone ne mangio’ un tempo sei grani profumati) si era persa in uno stuolo di informazioni botaniche serie e meno serie, a me assolutamente inutili. Perche’ bisogna sapere cosa cercare, nel mondo. E questa conoscenza la da’ solo la cultura, quella su cui ci siamo formati, con cui ci educhiamo continuamente. Tutto il resto e’ strumento, e alla stregua di strumento va trattato, perche’ non accresce la nostra vita interiore ne’ la modifica in alcun modo. Anche se la tecnologia mi seduce ogni giorno, con le sue promesse e le sue splendenti certezze per il futuro, ogni giorno un pochino mi delude. A poco infatti giova l’illimitatezza delle risorse se il referente umano e’ – grazie a dio – limitato; in nulla ci accresce il sapere di essere onnipotenti, lo stare come di fronte alla distesa marina, a osservare un’immensa superficie.

La perla e la conchiglia
La ricchezza, a parer mio, sta invece nel dettaglio. Nella profondita’ della ricerca. Nella capacita’ di guardare ogni piccola cosa da mille differenti punti di vista, da modificare e rivedere ogni giorno, seguendo tutte le strade, con piu’ attenzione a quelle poco battute. La grande illusione del terzo millennio e’ di poter accedere a tutto, nella rete virtuale, mentre il nostro sguardo – umano – si perde, e non coglie proprio niente. Se non, a voler ben guardare, che la realta’ vera e’ inafferrabile, ed e’ per questo che e’ cosi’ interessante. Navigando in queste pagine dagli oceani sterminati fino al mare delle informazioni, ancora una volta mi pare di scoprire che la perla piu’ preziosa sta dentro a una piccolissima conchiglia, a saperla cercare. Perche’ a stare sopra le cose, a guardarle dall’alto, rischiamo di vedere soltanto i nostri piedi.

E aveva un solco lungo il viso, come una specie di sorriso. Ricorre. Come ricorrono suggestioni varie. Visi abbrustoliti dal sole, profondamente segnati dal vento e dalla salsedine, capelli mossi e mozziconi alla bocca, casette bianche di calce stesa ad asciugare al sole, scogliere selvagge modellate dagli spruzzi di una forza inesorabile, piccole pipe perennemente accese sulle labbra di vecchi pazienti, dall’espressione lenta mentre le mani si muovono con l’agilita’ dell’abitudine tra reti a mucchi. E quell’ora, quella che ai naviganti intenerisce il core. Mare. Quale intensita’ evocativa in questa parolina, dal romantico tramonto, alla sensazione di essere piccole e impotenti creature al suo cospetto, dal fascino triste del mare d’inverno, alle serate con chitarre e lune sulla spiaggia, alle toccanti suggestioni di mille note, sublimate nella memoria dalle voci strascicate di Fossati e De Andre’ in “questi posti davanti al mare”.

Amare il mare e detestarlo
Forse e’ il destino di chi sa suscitare solo passioni intense. Totali e totalizzanti. La pace e la calma placida di una baia accucciata in un angolo di litorale, l’angoscia e il terrore di una mareggiata, l’imponenza agghiacciante di muraglioni ansimanti in mezzo all’oceano, l’allegria simpatica di semicerchi schiumosi che si inseguono sul bagnasciuga, il lento respiro delle maree, in un gioco di tensione emotiva tra innamorati timidi con la luna. Profumi. Salsedine che allarga le narici, umidita’ appiccicosa che incolla i vestiti, brezze salmastre che accarezzano pelli scottate dal sole.

I colori del mare
E poi colori. Intense tonalita’ di smeraldo che si stemperano in effimere trasparenze, blu e azzurrri che diventano neri abissali e notturni, candide sabbie finissime e arenili del colore dell’ocra, verdi e marroni e gialli di scogli e di muschi e di alghe, e poi colori irreali, rossi e turchesi e bianchi, rosa e viola di pesci variopinti, di molluschi e di quant’altro animi le profondita’ di un mondo che da sempre affascina le creature terrestri. Mare. Il Mare. Immensa distesa tangibile e al contempo inafferrabile, musa neanche troppo silenziosa per pagine epiche della letteratura, da Verne ad Hemingway, da Verga a Baricco, soggetto e protagonista di una miriade di canzoni, di un’infinita’ di film, dove di volta in volta e’ utilizzato per esorcizzare in maniera differente qualcosa che ciascuno di noi si porta dentro e che solo di fronte al suo concetto si manifesta. Non so perche’, non lo sapro’ mai, eppure io che non amo il mare, lo adoro, con buona pace della razionalita’.

Si sentiva il mare in quella conchiglia… Un rumore dolce, quasi impercettibile. Chiusi gli occhi e rimasi in ascolto mentre la mia mente si lasciava cullare e i miei pensieri, liberi, fuggivano lontano, curiosando fra ricordi impolverati e colorate fantasie. E d’improvviso mi ritrovai in riva al mare, in uno spazio indefinito fra sogno e realta’. Immersa nella mia solitudine guardavo quel blu profondo, intenso, cupo, rispecchiandomi in esso, conscia solo di quella brezza leggera che accarezzava la mia pelle e penetrava fin nei piu’ profondi recessi della mia anima tormentata e raggomitolata nel suo dolore. Ad un tratto un’onda, piu’ forte delle altre, attrasse la mia attenzione strappandomi bruscamente da me stessa. Disorientata, quasi spaventata, mi guardai intorno, sbattendo gli occhi ancora non abituati alla luce del sole. Incredula vidi il mio mondo riempirsi di colori, vidi il cielo, anch’esso blu, ma di un blu gioioso, limpido, screziato dal bianco candido delle nuvole. Vidi la luce, di un colore indefinibile che accende ogni cosa, rendendola brillante. Toccai l’oro della sabbia resa incandescente dalla calura estiva. Scorsi, lontano, i vivaci colori di una vela gonfiata dal vento, che scivolava rapida sull’acqua, mentre i gabbiani veloci la seguivano chiamandosi in volo. Ancora colma di meraviglia sentii i gridolini eccitati di una bimba che ruzzolava allegramente fra le onde. La guardai mentre cercava qualcosa in mezzo al mare e sorrisi alla sua gioia quando l’ebbe trovata. Incuriosita la vidi correre verso di me e offrirmi il suo tesoro, stretto nella manina insabbiata. Come riemersa da un sonno profondo, mi resi conto di non essere piu’ sola, di non esserlo mai stata. Presi quel tesoro fra le mani e lo accostai all’orecchio. Si sentiva il mare in quella conchiglia…

Il delfino il sogno di liberta’ che ogni uomo ha dentro di se’. Dall’idea di un giovane istruttore subacqueo, uno stimolo educativo per gli amanti del mare e della gente

“Aria e acqua, alla ricerca della liberta’”. Questo e’ il titolo della videocassetta che simboleggia questo progetto*. L’aria e l’acqua sono i due elementi di cui la vita umana necessita continuamente e il mare e’ il risultato del connubio fra questi due elementi. La vita sottomarina ha sempre incantato l’uomo proprio per questo straordinario equilibrio, spingendo uomini di ogni eta’ a esplorare i fondali e le cavita’ marine. L’animale simbolo di questo universo marino e’ stato, sin dall’antica Grecia, il delfin un mammifero dolce e intelligente. Anche lui, come noi, ha bisogno di respirare aria, di giocare e di curiosare nel mondo in cui vive ed e’ quindi nostro dovere cercare di tutelarlo e studiarlo. Il delfino e’ l’animale che Riccardo, un giovane ragazzo di Perugia amante del mare e dei delfini, piu’ ammirava per la sua straordinaria similitudine all’uomo come comportamento, intelligenza e sentimento. Il delfino, inoltre, meglio di ogni altro, identifica il sogno di liberta’ che ogni essere umano ha dentro di se’.
Quando ci immergiamo si puo’ scegliere tra l’apnea e l’A.R.A. (Auto Respiratore ad Aria); la prima e’ sicuramente la piu’ immediata e apparentemente facile, mentre la seconda richiede una preparazione tecnica specifica. Ed e’ proprio grazie all’A.R.A. che negli ultimi anni e’ andata crescendo l’attivita’ subacquea per disabili. Il grande potere dell’acqua e’ quello di rendere libere queste persone da tutte quelle barriere che incontrano sulla terra, potendo godere cosi’ dell’esperienza subacquea come tutti gli altri. Il progetto, promosso dalla Fondazione Cesar, nasce dalla voglia di mettere in atto cio’ che Riccardo Domenici, giovane istruttore subacqueo scomparso lo scorso maggio, avrebbe fatto in prima persona. Da come si puo’ capire dalla videocassetta il progetto si articola in tre sezioni. In primo luogo verra’ istituito a Perugia un corso di subacquea per disabili fisici tenuto da istruttori con brevetto specifico HSA (Handicap Scuba Association) presso l’Associazione Orsa Minore (a cui Riccardo apparteneva). L’obiettivo e’ quello di dare una ulteriore possibilita’ di recupero ai portatori di handicap fisici insegnando loro a nuotare sott’acqua, ad apprezzare la vita marina e a imparare una nuova forma di vita comunitaria.
Le altre due iniziative riguardano due borse di studio che la Fondazione Cesar ha erogato a favore di studenti laureati intenzionati a svolgere ricerche specializzate nel campo dell’apnea e in quello dei delfini. La prima borsa verra’ dunque assegnata a uno studente laureato in medicina che studi le anomalie del controllo dell’attivita’ respiratoria con particolare riguardo al fenomeno dell’apnea. Il prof. Brunetti, direttore del dipartimento di Medicina Interna e Scienze Endocrine e Metaboliche dell’Universita’ di Perugia, sara’ il coordinatore di questa ricerca, data la grande attualita’ e la diffusione dell’attivita’ subacquea in apnea.
La motivazione che sostiene questa ricerca e’ dettata dal fatto che, come sosteneva Riccardo, in questo settore specifico ci sono tanti problemi che la medicina ancora deve porsi e per i quali deve trovare risposte. Il tema e’ purtroppo di grande attualita’, in quanto con la diffusione dell’attivita’ sportiva ed amatoriale subacquea, e’ cresciuto anche il numero degli incidenti gravi, privi, ancora oggi, di spiegazione scientifica. La seconda borsa di studio verra’ data a uno studente laureato in biologia con lo scopo preciso di studiare il comportamento dei delfini. Europe Conservation, una organizzazione internazionale presente in vari paesi europei, collaborera’ all’iniziativa mettendo a disposizione dello studente i laboratori di Roma e un’imbarcazione sulla quale, durante il periodo estivo, sara’ possibile studiare piu’ approfonditamente l’animale.
Il sogno di Riccardo era proprio quello di poter nuotare un giorno libero, in apnea, con questi splendidi esseri marini, per “entrare in comunione con loro in quell’elemento dove puoi meglio conoscere te stesso, dove puoi meglio misurare i tuoi limiti e dove se veramente lo rispetti, lo conosci e lo ami, puoi entrare in perfetta sintonia con il tuo io piu’ profondo ed il mondo intero”. Sono inoltre noti gli apporti terapeutici benefici che il contatto con questi animali reca ai bambini autistici quando questi hanno la possibilita’ di vederli, avvicinarli, giocare con loro. Il progetto dunque, vuole essere uno stimolo educativo per tutti quei giovani che praticano attivita’ sportive marine a livello amatoriale e che desiderano trasmettere il loro desiderio e la loro passione per il mare ad altre persone, in particolare a quelle piu’ bisognose di sostegno.

* Chi volesse ricevere la cassetta citata nell’articolo puo’ richiederla telefonando al n. 051 271236

Internet: una rete che avvolge il mondo intero. E’ un mare che scorre via cavo, le cui onde irrompono nelle nostre case e dentro le quali occorre saper dare una disciplina alle parole. Alcuni consigli pratici

Non e’ vero che il mondo per noi non ha segreti. Non e’ vero che tutto e’ gia’ stato scoperto, esplorato. Non tutti i mari ci sono noti, e non tutti gli approdi per noi sono sicuri. Eppure non sto parlando di qualche zona sconosciuta del deserto australiano ne’ della mitica Atlantide, perche’ la geografia non e’ affar mio. Parlo di un nuovo mare, del tutto particolare, che non possiede distanze geografiche, ma con tutti gli ostacoli, le insidie e le difficolta’ di orientamento. E’ un mare, pero’, ricco di tesori, che regala grandi soddisfazioni ai suoi navigatori, sempre in movimento, nel mare delle informazioni. E’ il tema del momento. La rete delle reti si estende e moltiplica i propri utenti con un ritmo vertiginoso. Un sistema affascinante, che sta facendo del mondo un luogo piccolissimo, dove l’informazione viaggia a velocita’ impressionante per raggiungere potenzialmente ogni abitante. In questo universo della comunicazione, in buona parte anarchico, si sono pero’ gia’ affermate alcune regole, che occorre conoscere per capire e farsi capire da chi decide di ascoltare/leggere le nostre parole. Proviamo qui a illustrarne i principi fondamentali e le istruzioni per l’uso. Innanzitutt si naviga perche’ si vuole. La rete si percorre in modo volontario. E’ il soggetto che decide, in un certo momento della giornata, di trasformarsi in utente. Non puo’ subire la nostra comunicazione passivamente, come invece accade con gli spot in mezzo al film, oppure quella affissa in enormi cartelloni stradali, o quella che arriva in una busta sulla sua scrivania. Internet pone il destinatario di un messaggio in una posizione privilegiata, una posizione di scelta (come forse solo la Tv con lo zapping puo’ fare). Questa consapevolezza gli conferisce una grande forza: la forza di evitare, e, quando va bene, di giudicare criticamente i messaggi che non lo soddisfano. Si verifica cosi’ un’inversione del movimento della comunicazione. Con i mezzi tradizionali e’ il messaggio che cerca il destinatari la pubblicita’, le sponsorizzazioni, la posta, ci raggiungono a casa, in tram, in ufficio, senza che sia necessario da parte nostra alcuno sforzo. Al contrario, con Internet e’ il soggetto che si muove verso il messaggio. Benche’ esista sia la possibilita’ di riprodurre il proprio logo in siti di grande interesse (banner), replicando le classiche soluzioni pubblicitarie del manifesto, dello spot Tv e delle pagine sulla stampa, sia l’eventualita’ di transiti casuali presso un sito, in Internet un concetto da non scordare e’ la centralita’ del navigatore e delle sue aspettative.

Offrire contenuti reali e concreti
Altrettanto fondamentale e’ ricordare che gli utenti della rete navigano quasi sempre con uno scopo ben preciso, con finalita’ di ricerca mirate: reperire informazioni, trovare immagini, suoni, o anche solo curiosare. Percio’, e’ necessario offrire contenuti concreti, che valgano la pena e, soprattutto, la spesa. Infatti, Internet non solo e’ il piu’ grande serbatoio di informazioni esistente, ma e’ la patria della velocita’, della superficialita’, del surfing: un rapido sguardo e via, come se si cavalcasse un’onda che non permette facilmente di sostare. L’utente deluso dai contenuti informativi della nostra pagina, ci punira’ con un click che lo fara’ scappare mille miglia lontano da noi. Difficilmente si fermera’ a riflettere per scoprire significati reconditi: ben piu’ facilmente ci snobbera’, e poco probabilmente tornera’ a trovarci in seguito.

Suscitare interesse per favorire la fedelta’
Un ingresso casuale in un sito e’ un evento probabile; pero’ una volta catturata l’attenzione e’ necessario mantenerla viva nel tempo. L’utente, insomma, dovrebbe essere tentato di tornare al nostro sito. Poiche’ chi naviga spende tempo e denaro, e’ importante rendere i contenuti interessanti, rinnovandoli periodicamente, per invogliare a tornare. Selezionare i contenuti in base alle esigenze del pubblico, dunque, e aggiornarli di continuo. Ma non solo. Si e’ ormai affermata la tendenza a catturare la fedelta’ degli utenti offrendo una serie di servizi (semplici o complessi, in maggior parte gratuiti), che abbiano una qualche attinenza con la proposta promozionale o di comunicazione. In questo modo si attirano i destinatari del messaggio sia attraverso il vero e proprio contenuto, sia mediante altri servizi utili, cercando di creare con quelli un rapporto stretto e duraturo. Attenzione, pero’ che i servizi offerti siano veramente utili e, soprattutto, come i contenuti, periodicamente rinnovati. Per esempio, la guida del nottambulo fornisce l’oroscopo del mese. Nautica on line (sito della rivista “Nautica”) propone una serie di servizi gratuiti veramente interessanti che inducono l’utente a tornarvi spesso.Vacanze Piu’ (sito di una rivista di turismo) ha attivato un data-base ittico, con foto, schede e notizie su specie di tutto il mondo. Swatch da’ la possibilita’ di scaricare degli sfondi per la scrivania del computer realizzati con le foto degli ultimi orologi prodotti. Invicta presenta una sorta di newsletter con reportage di viaggi, molto ricca di immagini e notizie, oltre che giochi e altre curiosita’. Rio Studio – www.riostudio.it – propone, per l’appunto, dati, case history e consigli pratici per la creativita’ in internet.

Le immagini e le “modalita’ testo”
Si parla tanto di new media e delle loro potenzialita’ multimediali. Pero’ Internet e’ ancora lontano dal poter applicare appieno il concetto. Le prime volte che si naviga tutti sono attratti da splendide pagine web dense di immagini, colori, molto ricche e accattivanti. Questo atteggiamento pero’ dura poco, e in breve si passa a mal sopportare le attese. Certo, sebbene le immagini aggiungano valore alla comunicazione, e’ bene tenere sempre a mente che il navigatore e’ condizionato dal tempo e che navigando acquista una sensibilita’ particolare a tutti quelli che ritiene degli sprechi. Mediamente, si considera che l’utente accetti di attendere non piu’ di qualche decina di secondi prima di visualizzare completamente una pagina web. Inoltre, in tutti i browser e in molti siti si puo’ navigare in modalita’ testo, evitando di visualizzare le immagini: riacquista cosi’ notevole valore la bonta’ dei contenuti testuali e l’organicita’ della loro presentazione. Tale sistema di navigazione permette tempi di viaggio molto abbreviati. Si evitano cosi’ gli sprechi di soldi (connessione telefonica), e soprattutto di tempo.

Il linguaggio parlato
Coerentemente, anche la parte testuale dovrebbe essere improntata alla semplicita’ e all’immediatezza. Basti notare che i siti migliori e piu’ graditi adottano un linguaggio fresco, quasi confidenziale, piu’ simile alla forma colloquiale che a quella propriamente scritta. Semplice e immediato non vuol dire criptic e’ certo inutile dilungarsi in interminabili spiegazioni, che possono essere rimandate ad approfondimenti ipertestuali, ma e’ altrettanto deleterio divenire cosi’ sintetici da essere poco comprensibili.

Gli ipertesti nella rete
A proposito di ipertesti: ogni blocco di ipertesto, ovvero ogni pagina web che sia in qualche modo collegata (linkata) al nostro sito, dovrebbe essere comprensibile e contenere informazioni utili in se stessa. Difatti, spesso chi naviga giunge a una data pagina non seguendo un percorso sequenziale (partendo, cioe’, da una home page e procedendo di link in link), ma attraverso l’uso di motori di ricerca, che posizionano il navigatore nel punto definito di un documento, corrispondente all’oggetto della sua ricerca. Inoltre, la costruzione gerarchica del testo, tipica della forma ipertestuale, ha una grande valenza comunicativa: il testo viene strutturato come un albero, con varie e successive ramificazioni che corrispondono ai diversi approfondimenti. E’ fondamentale, pero’, organizzare l’informazione in modo estremamente logico e ordinato, per evitare, come invece spesso accade, che l’utente si perda tra link e rimandi. Per di piu’, sarebbe meglio evitare i “link circolari”, attraverso i quali si arriva in un punto del testo e poi si viene rispediti di nuovo al link di partenza: non soddisfano la voglia di approfondire e danno la sensazione di essere menati per il naso. Ancora: risulta molto gradito al navigatore che si utilizzino colori differenti per i link interni (collegamenti ipertestuali a pagine dello stesso sito) e per i link esterni (collegamenti ad altri siti). In tal modo egli puo’ rendersi costantemente conto dei percorsi lungo i quali sta procedendo. Sempre a proposito di link, in particolare esterni, risulta anche gradito che oltre al link stesso si fornisca una descrizione di massima del sito collegato, utile a determinarne il contenuto. Un buon sistema per evitare che l’utente, entrando nel nostro sito, si senta perso nell’iperspazio, consiste nel fornire subito delle tracce esaustive sulla struttura delle pagine. Ad esempio, potrebbe essere conveniente fornire un indice completo e strutturato del sito, ovviamente con i relativi link, precisando per ciascun livello il tipo e il numero di documenti che esso contiene. Per quanto concerne la forma, e’ utilizzabile tanto la modalita’ testuale, quanto un’impostazione grafica piu’ fantasiosa e user friendly. Andrebbe sempre verificato, in definitiva, che alla fine di ogni ramo ci sia un frutto, che ogni rimando conduca a un’informazione davvero utile.

Netiquette: il galateo della rete
Internet non e’ solo comunicazione istituzionale-promozionale, pagine web o serbatoio di programmi e informazioni. E’ una grande opportunita’ di comunicazione interpersonale, attraverso la posta elettronica. Che non e’ solo la possibilita’ di mandare messaggi ad amici, parenti, fornitori o clienti, che li riceveranno quasi istantaneamente. Soprattutto e’ un ottimo mezzo di marketing diretto e una fonte praticamente inesauribile per l’accrescimento personale. Infatti, da un lato, come nel caso di un mailing cartaceo, si possono mandare messaggi a un solo destinatario oppure a migliaia di soggetti, utilizzando i vari data-base, gratuiti o a pagamento, presenti sulla rete, per realizzare una campagna di direct marketing telematico. D’altro canto, le migliaia di News Group oggi esistenti consentono di partecipare a discussioni collettive su quasi tutti gli argomenti immaginabili. Esistono forum sulla comunicazione, sulla biochimica, sull’informatica, sul cinema, sull’arte rinascimentale portoghese e su quant’altro possa interessare. Qualsiasi impiego si voglia fare della posta elettronica, e’ bene tenere sempre a mente alcune regole fondamentali di comportamento, un galateo tutto particolare che viene definito Netiquette, ossia l’etichetta di Internet. Una parte di tali regole sono comuni tanto all’uso della posta elettronica come mezzo per inviare e-mail quanto alla partecipazione a News Group; altre, invece, sono caratteristiche soltanto del mondo dei forum virtuali.

La lunghezza del messagio e-mail
L’immediatezza che caratterizza la posta elettronica impone uno stile semplice, paragrafi corti e testi succinti: una sorta d’incrocio tra parola scritta e parola detta. In una lettera tradizionale, infatti, e’ necessario essere sicuri di aver spiegato tutti i concetti in modo esauriente, poiche’ i destinatari non possono chiedere spiegazioni; al contrario, chi riceve una e-mail puo’ immediatamente scriverne una di rimando, chiedendo gli approfondimenti del caso. E’ buona regola, nel caso si invii un testo molto lungo, avvertire i destinatari, anteponendo al proprio messaggio la dicitura “articolo lungo”, o “messaggio lungo”. Se il testo e’ veramente corposo, meglio scrivere un breve messaggio introduttivo e inviare il resto come allegato (attachment). Il destinatario potra’ fruirne piu’ facilmente: cosi’ anche un file allegato a una e-mail (es. l’articolo inviato dal giornalista, la relazione o l’offerta commerciale) puo’ essere creato con qualsiasi programma di videoscrittura o videoimpaginazione e quindi formattato come si desidera. Altrimenti si puo’ organizzare un testo lungo suddividendolo in vari paragrafi, per renderne piu’ agevole la lettura e la comprensione. Ovviamente i sottotitoli dovrebbero essere sintetici ma non tropp scegliere con cura i termini da usare, per essere descrittivi quanto serve, nel minor spazio possibile. Oltre a cio’ e’ utile fornire un (breve) sommario degli argomenti trattati, che preceda il testo e consenta al lettore di capire subito il contenuto del messaggio oppure di concentrarsi sulle parti per lui piu’ interessanti.

Esprimere umori o intonazioni
Per ovviare alla difficolta’ di esprimere, con il computer, gli umori di chi scrive e le varie intonazioni date alle frasi, gli internauti hanno inventato alcuni giochi grafici. Mediante determinate combinazioni di tasti, infatti, si disegnano certe piccole facce con diverse espressioni, chiamate emoticons, cioe’ – piu’ o meno – “icone che esprimono emozioni”. Alcuni esempi.

🙂 denota ironia e scherz provate a ruotare le pagine di 90¡ verso destra: non vi sembra un bel sorriso? Si ottiene battendo due punti, trattino e parentesi tonda chiusa;

😉 usato per sottolineare il sarcasmo di un commento (e’ un viso che strizza un occhio);

🙁 per esprimere malumore basta digitare due punti, trattino e parentesi tonda aperta;

:-I l’indifferenza a un messaggio;

>:-> sarcasmo estrem un ghigno satanico e un diabolico paio di corna.

Oltre a cio’, esistono altri modi di dare enfasi alle parole o di farle risaltare all’interno di un test

** gli asterischi sostituiscono il corsivo;

Il MAIUSCOLO vale come esclamazione, come se le parole fossero urlate;

> e’ il simbolo che precede un testo citato.

A proposito di citazioni, immaginiamo di ricevere una e-mail che dice:
Si’.
Sara’ difficile sapere su che cosa il mittente annuisce. Allora e’ bene citare (anteponendo il simbolo > al testo citato) qualche riga della lettera alla quale si sta rispondendo, per consentire al destinatario di capire meglio il concetto che si esprime: davvero poche righe o anche solo poche parole. Esempi
>Ti interesserebbe partecipare al convegno “Goldrake: un mito
>di ieri e di oggi”?
Certamente, sono molto interessato. Fammi sapere quando
si terra’ e le modalita’ di partecipazione.
Le prime righe di testo precedute dal simbolo > sono una citazione; mentre quelle senza il simbolo sono la risposta vera e propria. Un altro esempi
In merito al suo intervent
>Una soluzione potrebbe essere quella di gasare il cassonetto
>con il contenuto di un estintore.
vorrei ribadire che la mia richiesta di aiuto riguardava il modo
di far traslocare sane e salve le api che hanno deciso di costruire il loro
alveare nel mio bidone dell’immondizia
In questo caso il testo citato e’ inserito tra due parti di una risposta.

Pensarci due volte
Un ultimo consigli pensare due volte prima di inviare un messaggio e-mail. Una lettera tradizionale va imbustata, bollata e imbucata. Operazioni che richiedono un certo tempo. Il mezzo elettronico, invece, consente di redigere e spedire una lettera in tempi brevissimi, con un semplice click. Immaginiamo di ricevere una lettera che provochi in noi una reazione emotiva di rabbia o comunque che ci faccia venire la voglia di rispondere a tono. Una replica via posta tradizionale lascia il tempo di riflettere, di calmare l’animo turbato, di riacquistare il controllo e magari modificare il tono della risposta. La posta elettronica, no. Prima di inviare una e-mail, un po’ di prudenza riduce il rischio di distribuire messaggi dei quali ci si potrebbe pentire.

Il mare dentro di me
Di Franca Cristella

Ho mare dentro di me; un mare di pensieri e di sogni che, come le onde,
si infrangono incessanti contro la realta’, scoglio roccioso e immobile.
Tuttavia, con l’insistenza e la tenacia di un tarlo che prima intacca
la superficie e poi si infiltra all’interno, il mio mare si insinua…
poi si ritrae.
Il mio mare e’ il mio approdo quando, delusa, chiudo gli occhi,
finestre sul mondo, e mi abbandono al suo misterioso messaggio
che infonde pace.
Lui mi parla e io mi affaccio esitante sulla sua distesa cercando un ritorno
alle origini supreme.
Mi astraggo dal mondo per trovargli un senso.
Mi immergo nel vuoto e ascolto… Ecco…
come brezza mi viene incontro, risuona nella mia mente,
scorre come linfa nelle fibre piu’ recondite del mio corpo.
E’ la mia guida. E la voce del silenzio, e’ il mare che ho dentro.

Poesia del mare
Di Rossella Ventura

Il mare e’ poesia.

C’e’ poesia nel gioioso chiacchierio delle onde
che si susseguono instancabili verso la riva,
nella scia di una nave
che raggiunge un sogno lontano,
nella violenta tempesta
che scatena turbini di emozioni…
C’e’ poesia nell’onda che nasce improvvisa,
cresce spumeggiando,
si infrange in un gemito sulla sponda:
la storia di una vita!

Un rovesciamento di ruoli. Per una volta e’ il mare ad affidare i suoi pensieri agli esseri umani, perche’ li custodiscano. Una richiesta d’amore e di rispetto

Per scrivere al mare sono andata a sedermi sulla sabbia e ho cominciato a intervistare il mio grande amico. L’ho chiamato e lui ha mandato un’onda a salutarmi, che prima di tornare indietro mi ha lasciato una meravigliosa conchiglia in dono.
ELIANA: “Ciao, e grazie per il tuo regalo.”
MARE: “I miei amici sono sempre i benvenuti. Cosa posso fare per te?”
E: “Avrei bisogno che mi parlassi un po’ di te e del tuo rapporto con gli uomini.”
M: “Ah, sara’ un lungo discors mettiti comoda e ascolta attentamente. Sono da sempre amico e confidente di tanti uomini. Molti mi amano, ma c’e’ anche chi mi odia; tanti temono le mie profondita’ misteriose, ma ci sono alcuni che hanno deciso di sfidarle.”
E: “Scusa se ti interrompo, ma mi piacerebbe sapere perche’ tu che sei cosi’ pieno di meraviglie, che hai ispirato con la tua bellezza cantanti e poeti, diventi spesso violento e crudele.”

Il mare triste
Avverto una grande tristezza nella sua voce quando mi risponde:
M: “E’ vero, mi sono state dedicate tantissime poesie, ho ricevuto una serie infinita di dichiarazioni d’amore, ma c’e’ anche chi mi ha dichiarato guerra. Le mie acque sono diventate la discarica piu’ grande del mondo, sulle mie spiagge vengono costruite fabbriche e palazzi. Ogni giorno migliaia di mostri d’acciaio affrontano le mie onde lasciando alle spalle una scia di materiali inquinanti. E i miei abitanti muoiono, soffocati dal petrolio e dai rifiuti. Quelli che faticosamente riescono a sopravvivere sono serviti arrosto nei vostri ristoranti.”
E: “Hai ragione, spesso non ci rendiamo conto del male che ti facciamo.”
M: “Voi mi state distruggendo!”
E: “Probabilmente la tua immensa grandezza ci induce a pensare che noi con la nostra piccolezza non potremo mai riuscire a distruggerti.”
M: “E invece siete in errore. Fra poco le mie acque non saranno piu’ abitate da nessun essere vivente. Solo rifiuti, relitti e animali senza vita. Pescherete cio’ che nessuno potra’ mai mangiare, e non potrete piu’ giocare con le mie onde. Le mie spiagge saranno deserte, non sentiro’ piu’ le risate spumeggianti dei bimbi, …non piangere, so che tu mi ami e io amo te. Ti ho sorpresa tante volte a guardarmi affascinata, e tante volte abbiamo parlato. Mi hai confidato tutti i tuoi segreti, mi hai presentato le persone che ami, hai difeso le mie creature e hai pulito le mie spiagge.”

La natura ha un cuore
E: “L’ho fatto perche’ amo la tua acqua azzurra, il riflesso della luna di notte. Amo guardare i pesci guizzare fra i miei piedi e le onde che mi accarezzano. Mi piace sentire il tuo profumo e ascoltare la tua voce.”
M: “Lo so, ho tanti amici nel mondo, tante persone che vorrebbero vedermi di nuovo limpido e pieno di vita, ma purtroppo sono ancora molto pochi. E io sono destinato a morire. Per questo ci sono momenti in cui il dolore e la rabbia mi fanno impazzire e mi portano a distruggere tutto cio’ che mi trovo di fronte. E’ il mio modo di comunicarvi che anch’io ho un cuore, un’anima con gioie e dolori, amori e odi. Vorrei poter continuare per sempre a giocare con i bambini, a sentire gli schizzi di allegria fra le mie onde. Vorrei essere ancora il grande amico e confidente di tutti, cullare dolcemente le barche che si abbandonano con fiducia alla mia vastita’. E la notte chiudere gli occhi per non disturbare il canto d’amore degli innamorati.” Mentre diceva queste parole i suoi occhi erano pieni di lacrime e io capii che forse era arrivato il momento di andare via. L’intervista era finita e lo lasciai solo con le sue speranze. Grazie mio infinito amico.

“Il Mediterraneo e’ uno spazio-movimento”. E’ questa una delle innumerevoli definizioni che lo storico Fernand Braudel ha coniato per mettere a fuoco i molti aspetti di questo mare. Diecimila anni di comunicazione, un insieme di vie marittime e terrestri collegate tra loro, citta’ che si tengono per man un sistema di circolazione di merci, di uomini, di idee. Una regione in cui lo spazio, cosi’ ristretto a confronto delle vaste aree che si estendono a est, a ovest, a sud, e’ stato come dilatato dalla intensissima dinamica storica che in esso si e’ svolta. Nessun posto al mondo come il bacino del mediterraneo puo’ avvicinarsi a rappresentare il distillato di ogni genere di interazione umana.
La comunicazione, e quindi il principio del movimento, e’ stata il motore delle civilta’ mediterranee. Il pensiero greco comincia da qui. La conoscenza come meraviglia, la meraviglia come conoscenza di se’ e degli altri. Ancora oggi quest’area conserva quei connotati di densita’ e di fecondita’ della civilta’ e della convivenza che la rendono laboratorio di integrazioni etniche, sociali, religiose, ma anche teatro di acuti conflitti e di stridenti contraddizioni. Il fenomeno che negli anni Novanta sta incarnando meglio di altri il paradigma interpretativo delle dinamiche sociali ed economiche del mediterraneo e’ quello turistico. In questa “piccola fenditura della crosta terrestre” (altra suggestiva definizione di Braudel) il turismo ha avuto origine. Qui ha raggiunto il suo maggiore sviluppo. Nel mediterraneo sono presenti tutte le tipologie turistiche oggi conosciute, che lo rendono non solo l’area piu’ ricca ma anche quella in cui vengono prefigurati in anticipo i comportamenti che poi si manifesteranno su tutto il mercato mondiale. Comportamenti turistici che si fondono con i problemi di comunicazione inter-culturale tra paesi e popoli del bacino. Cresce la comunicazione tra culture e le relazioni turistiche che sono al centro di questo processo di interscambio. Se inquadrassimo il fenomeno in un’ottica di comunicazione, il turista rappresenterebbe un veicolo di interazione con la realta’ locale, della quale egli vuole intensificare il livello di conoscenza, un canale biunivoco di comunicazione tra due societa’. I movimenti turistici sono una grande risorsa per lo sviluppo di piccole comunita’ locali, cosi’ inserite in circuiti virtuosi di produzione della ricchezza. Ma accanto alle opportunita’, si affacciano anche rischi significativi. Il piu’ allarmante e’ quello ambientale. La pressione antropica su questo delicatissimo ecosistema cresce in maniera esponenziale. Ogni anno in esso vengono versati oltre 350 milioni di tonnellate di rifiuti solidi (nelle citta’ del Mediterraneo del sud il 90% delle acque scaricate in mare non sono depurate), mentre non crescono allo stesso ritmo le azioni di difesa e conservazione del suo equilibrio.
Attorno al bacino del Mediterraneo, che costituisce solo lo 0,7% della superficie liquida del pianeta, vivono oggi piu’ di 350 milioni di uomini, che diventeranno 540 milioni del 2025. Ed e’ la composizione interna di questa popolazione la causa del secondo grande problema: mentre la popolazione della riva nord, a basso tasso demografico, restera’ pressoche’ inalterata, la crescita avverra’ quasi esclusivamente sulla riva meridionale e orientale; abitata prevalentemente da arabi e turchi. Gli europei tra trent’anni saranno solo i 2/5 della popolazione mediterranea. Muteranno i rapporti tra le tradizioni, i costumi, le religioni. Aumenteranno i fattori di criticita’ e di conflitto. La crisi ambientale da una parte, quella etnico-religiosa dall’altra. I fantasmi che minacciano lo splendore del mare “nostrum”, sospingendolo verso un’angosciosa decadenza che lo trasformerebbe in mare “monstrum”, possono essere sconfitti. Ancora una volta da questo scrigno di superba civilta’ puo’ levarsi quell’energia di idee, di tensione creativa e di cultura delle relazioni che puo’ ristabilire il primato del logos, della parola parlata, che trasforma l’ostilita’ in dialogo, la contrapposizione in conciliazione, la minaccia della guerra in un nuovo capitolo di storia millenaria.

Un messaggio affidato alle onde del mare, come un tempo facevano i naufraghi, che riponevano tutte le loro speranze in un piccolo pezzo di carta chiuso in una bottiglia. E a volte il messaggio veniva ripescato dalle navi di passaggio, e il naufrago tratto in salvo. Perche’ bisogna credere nei propri sogni, e tentare tutte le strade, anche quelle che ci sembrano impossibili da percorrere.

Caro Montanelli, ho letto un suo libro in cui parlava delle sue esperienze di corrispondente, quando aveva trent’anni, la mia eta’. Mi sono messo nei suoi panni, e nonostante lei abbia vissuto le piu’ grandi tragedie di questo secolo sfortunato, lo ha fatto da protagonista, e per un giovane di trent’anni deve essere stato esaltante. Poi ho paragonato il suo protagonismo con le mie grande frustazioni di sicuro fallito perche’ quando non hai mai lavorato, quando non hai soldi, quando non puoi costruirti una famiglia, quando sei costretto a vivere ancora sotto lo stesso tetto con i genitori, non puoi che sentirti un fallito.
Le diro’ subito che non sono stato tutto questo tempo a dormire sonni tranquilli, aspettando che la Provvidenza mi venisse a cercare. Dopo un’universita’ non finita, ho fatto di tutto, ma non basta a trovare un lavoro stabile. Non sono ne’ qualunquista ne’ credente, quindi non posso prendermela ne’ con il governo ne’ con Dio. Ma sono disperato. E, non sapendo che fare, mi accingo a chiederle proprio cio’ che mi ripugna, una raccomandazione. A questo punto pensera’: questo prima mi fa una manfrina sulla situazione e poi mi chiede qualcosa. Mi creda, non e’ cosi’. Mi e’ rimasta ancora una piccola capacita’ di sognare, e nel mio sogno le chiedo cio’ che mi sarebbe piaciuto fare da ragazzino, il tipografo. Non puo’ intercedere per me e farmi trovare un lavoro stabile come tipografo? Credo nelle persone, e lei mi sembra un vecchio nonno capace di fare simili bizzarrie. Naturalmente non conosco l’indirizzo della sua abitazione, e quindi sono costretto a scriverle questa lettera attraverso il giornale. Se mai le arrivera’ tra le mani, spero che lei non la pubblichi. Butto questo messaggio nel mare dei sogni, sapendo che il sogno mai si realizzera’.

Giovanni C. Chieti

Caro Giovanni,
nella sua sfortuna lei ha tre cose a suo favore. Ha mantenuto la dignita’, ed e’ fondamentale. E’ disposto a trasferirsi, ed e’ importante. Sa svolgere un pensiero (e conta anche questo). Fatico a credere che una persona come lei non riesca a trovare un lavoro. Ma le credo, naturalmente. Tant’e’ vero che pubblico la lettera, e spero che per lei arrivi qualche buona notizia (gli italiani mi fanno spesso arrabbiare, ma possono essere sorprendenti). Devo tuttavia avvertire i lettori che si tratta di un’eccezione (l’uscita il primo maggio non e’ una coincidenza). Vorrei fare questo ogni giorno, ma e’ chiaro che non posso e non devo.

Il mare e’ memoria, il mare e’ vita. Ma dal mare riaffiorano anche ricordi penosi. Con cui imparare a convivere

Oh mare nero, mare nero, mare ne…
tu eri chiaro e trasparente come me…
Quando qualche giorno fa Luca Barbarossa ha cantato la Canzone del sole di Battisti nella piazza della mia citta’, ho cominciato a viaggiare nel passato. Mi sono proiettato su una spiaggia in una notte d’estate intorno a un falo’, mentre bacio una ragazza conosciuta poco prima, il tutto con disperazione di chi strimpellava la chitarra. Il mare per me e’ ricordare. Ed e’ strano perche’ vivo in una cittadina di mare. Ma e’ piu’ forte di me, quando vedo un’onda che si infrange sugli scogli o sento l’odore acre della salsedine non posso non ricordare. Un amico, un pallone, una ragazza, una nuotata.
Nostalgia? Forse. Ma probabilmente e’ la sensazione di non rivivere piu’ certe emozioni, di non fare piu’ casino con gli amici, insomma di perdere la spensieratezza di adolescente. Che tipo il mare! Non cambia mai. Lo guardo giorno dopo giorno, estate dopo estate, amore dopo amore, ma lui e’ sempre li’ mosso o calmo, ma sempre li’, senza che nulla lo muti. Sono io che cambio e lo vedo con occhi diversi. e’ da molto tempo, pero’, che mentre lo guardo sorrido; e’ un sorriso amaro, consapevole che il mare si prende gioco di noi e delle nostre vite. Questa voglia di giocare gli deriva dalla sua forza, dalla sua grandezza, dal mistero delle sue profondita’. Sono le armi con cui egli si difende dall’uomo, che non perde occasione per violentarlo e distruggerlo.

Oh mare nero, mare nero, mare ne…
Si’, e’ il senso di impotenza che mi scorre nelle vene quando vedo il mare. Ha ingoiato i miei amici: Antoniooooo! Antoniooooooo! Dov’e’ Antoniooooo! Non lo vedo!… Non lo vedo! Non l’ho piu’ visto Antonio. e’ sparito! Non posso neanche dire che sia morto. Non c’e’ piu’ e basta. Sono passati tanti anni da quella maledetta uscita in mare che ha condizionato il mio rapporto con lui. Oggi, pero’, non provo piu’ rabbia (anche se ne avessi, con chi me la potrei prendere?), mi accorgo solo che quando arrivo in spiaggia d’estate o quando passeggio per il lungomare della mia citta’ mi devo fermare davanti a questa immensa massa d’acqua e la devo guardare bene, ma proprio bene, finche’ Betty non mi dice: Alessa’, qua ci dobbiamo stare. Mentre ascolto la canzone di Battisti sono al di qua dal mare e nella mente il contatto con lui e’ molto lontan ho ancora tante cose da fare prima di incontrarlo. Pero’ sicuramente l’aver scritto di lui e di me, mi aiuta a pensarlo con un sorriso che non e’ piu’ di amarezza, ma di riconciliazione.

L’amore
E chiare sere d’estate, il mare, i giochi, le fate
e la paura e la voglia di essere nudi
un bacio a labbra salate, un fuoco, quattro risate
e far l’amore giu’ al faro…
(Claudio Baglioni – Questo piccolo grande amore)

La fuga
Onda su onda
il mare mi portera’
alla deriva
mania di una sorte bizzarra e cattiva
onda su onda
mi sto allontanando ormai
la nave e’ una lucciola persa nel blu
mai piu’ mi salvero’
(Paolo Conte – Onda su onda)

L’incertezza
Come puo’ uno scoglio arginare il mare
anche se non voglio torno gia’ a volare
le distese azzurre e le verdi terre
le discese ardite e le risalite
(Lucio Battisti – Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi)

La lirica
Qui dove il mare luccica e tira forte il vento
su una vecchia terrazza davanti al Golfo di Sorrento
un uomo abbraccia una ragazza dopo che aveva pianto
poi si schiarisce la voce e ricomincia il canto
(Lucio Dalla – Caruso)

L’impegno
Vanno anche le cose vanno, vanno migliorano piano piano
le fabbriche, gli ospedali, le autostrade, gli asili comunali
e vedo bambini cantare, in fila li portano al mare
non sanno se ridere o piangere, batton le mani
far finta di essere sani, far finta di essere..
(Giorgio Gaber – Far finta di essere sani)

Il disimpegno
Con le pinne, fucile ed occhiali
quando il mare e’ una tavola blu
sotto un cielo di mille colori
ci tuffiamo con la testa all’ingiu’
(Edoardo Vianello – Pinne, fucile e occhiali)

Guccini DOC d’annata
Al caldo del sole al mare scendeva la bambina portoghese
non c’eran parole, rumori soltanto come voci sorprese
il mare soltanto e il suo primo bichini amaranto
le cose piu’ belle e la gioia del caldo alla pelle
(Francesco Guccini – Canzone della bambina portoghese)

Un classico di sempre
Sapore di sale, sapore di mare
che hai sulla pelle che hai sulle labbra
quando esci dall’acqua e ti vieni a sdraiare
vicino a me, vicino a me
(Gino Paoli – Sapore di sale)

Basta essere ordinati. Soltanto appena accennati, lievi movimenti ed il corpo si mantiene sospeso sul mare. Il galleggiamento e’ conquistato. E cominciano a fluire i ricordi

La superficie del mare e’ il limite tra lo spazio esterno e quello occupato dall’acqua stessa ed e’ in quiete. Riflette l’apparenza. Di fronte c’e’ la spiaggia. Sedie a sdraio ed ombrelloni tutti a strisce. Bianchi e verdi per una fetta. Poi, verso destra, bianchi a spicchi arancioni. Verso sinistra bianchi e blu con scritto Lido Venere sulle frange laterali. La luminosita’ e’ lattescente intorno ai cerchi d’ombra perfettamente alternati. Buongiorno ingegnere. Ossequi. Mi scusi. Permette? Per gli ospiti, questa sera si apparecchia con la tovaglia di lino ricamato. Sul petto la pelle e’ riarsa dall’afa. Alzo perpendicolare il braccio destro ed affondo il sinistro verso il basso. Avverto una rotazione dal busto al bacino mentre un fluido tiepido accarezza il mio volto. Guance, fronte, tempia, mento. Ancora una rotazione. Provo a sedermi. Poi stendo le gambe e sollevo appena appena il collo. Vedo uscire dalla superficie dell’acqua le dieci dita dei miei piedi. Hanno un aspetto pallido di colore giallastro. Alcuni volti anonimi hanno lo stesso colore, con in piu’ un’espressione contrariata. Se lei si agita rischia di propagare fenomeni di onda che possono modificare l’assetto della superficie. Rilasso i muscoli e resto immobile, supino. Gocce di mare mi scivolano lungo la nuca mentre Don Mario mi chiede se voglio prendere in moglie la qui presente signorina Marta Renzi. Residui liquidi mi restano impigliati tra le ciglia.
Il sole, dritto sopra di me e’ al centro di un cielo bianco. Ho voglia di frescura. Lentamente, senza fare schizzi, mi do una leggera spinta, con una mano sott’acqua, e mi posiziono con il ventre ed il viso all’ingiu’. Sotto di me vedo la distesa di sabbia. Mi chiedo quanta acqua c’e’ fino al fondo. Decido per il colpo di reni. Subito inalo una sensazione di freddo che quando poi scorre lungo le narici, arriva bollente alla base. Schiudo le labbra ed attraverso una fessura nella barriera dei denti la punta della lingua e del palato riconoscono il sapore delle cozze alla marinara. e’ proprio come le cucinano da Zi’ Pino, nel locale sul porto.
Adesso, dopo la cerimonia, mia suocera e’ appagata. L’ultimo sforzo lo ha fatto in chiesa quando, in piedi davanti all’inginocchiatoio in prima fila, ha sollevato con la mano inguantata, la veletta rosa che le scende dal cappellino sul viso ed ha asciugato la lacrima che le e’ sfuggita dall’angolo di un occhio. Muovo verso il basso. Mi addentro in un ambito variamente definibile, colorato di blu. Alla mia destra guizza un leggero banco di sardine. I dorsi superiori tendono all’azzurro. Ciascun componente tiene il muso a succhiare la coda del compagno che lo precede. Ad una lieve increspatura di corrente, il banco all’unisono volteggia in un sinuoso dietro-front ed il compagno dalla coda succhiata adesso perseguita l’ex compagno del muso.
Sono in giro in bicicletta quando incontro Marta. All’angolo tra Piazza Cavour e Via Margutta, vedo due ragazze sedute a un tavolino all’esterno del bar Prince. Una e’ bruna, volto solare, sguardo lucidissimo. Si sono fatte servire due aranciate. Invento. Mi avvicino e freno bruscamente, facendo in modo che la ruota posteriore scarti di fianco. La manovra riesce e io rotolo in terra, proprio davanti ai loro piedi. Restano entrambe esterrefatte. Io sguardo fisso in volto la bruna. Faccio un occhio da pesce lesso e sollevando un braccio invoco un sorso di aranciata. Lei si commuove. Sorride. Piu’ tardi mi dice il suo numero di telefono.
La forza di gravita’ sembra ridotta. Con stupore mi rendo conto che la sospensione della respirazione sembra non darmi problemi. Il blu e’ denso. I colpi con le gambe e le bracciate non abbisognano di energia per spingermi in fondo. Leggermente piu’ in alto adesso vedo i riflessi argentei del passaggio del banco di sardine irrequiete. In completa armonia di movimenti, mi naviga affianco l’iridescenza rosata di una ventina di maccarelli. Il blu intorno si incupisce di verde scuro. Alcune triglie dai toni cremisi mi transitano sotto il naso. La mia prima macchina ha proprio un colore simile. Un miscuglio tra il rosa e lo scarlatto. Sembra verniciata con colori da parete. Usatissima di ennesima mano, ma dentro riusciamo a starci in sei. Oltre a me, Carlo e Mimmo, ci sono tre splendide bambine. Una e’ la mia adorata Sofia. Se lo strumento al centro del cruscotto indica il livello del carburante, vuol dire che il serbatoio e’ a secco.
Va la’ – dicono in coro – la frizione slitta, i finestrini non si aprono, il tergicristalli e’ un optional. Ti pare che funziona l’indicatore della benzina? Quanta gioia. Rido anch’io. Dopo qualche centinaio di metri il motore si spegne. Non di botto. Prima tossisce tre o quattro volte. Sofia che e’ un po’ piu’ responsabile delle altre si mette al volante. Dopotutto la forza di spinta di noialtri cinque non e’ poi cosi’ spasmodica da velocita’ pericolosa. Tre ore per raggiungere un distributore. Benzina. Io metto il mezzo per cui non devo pagare. Gli amici si ritengono ospiti e tutto e’ loro dovuto. Le due bambine fanno duemilalire in totale. Sofia comincia a ridere. Carlo solleva in alto le braccia ed incrocia lo sguardo di Mimmo. e’ una scintilla. Scoppiano a ridere tanto da torcersi lo stomaco. Vorrei razionalizzare la situazione ma non posso. Comincio a sghignazzare anch’io. Butto le braccia al collo di Sofia. Un calamaro danza nell’acqua e quattro merluzzi affusolati si dirigono verso il basso. Sul dorso hanno tre pinne di colore grigio scuro. C’e’ meno luce di prima. Mi chiedo quanto manca per raggiungere il fondo sabbioso. A guardare bene non sono piu’ sicuro di vederne il chiarore. Il nero e’ piu’ compatto.

I grembiuli della scolaresca dopo una mattinata di scuola hanno perso la stiratura ed i fiocchi blu sono misere strisce penzolanti. Sono pero’ radioso. Dentro la cartella ho appena riposto la pagella del trimestre. Tutti dieci. Mio padre si atteggia a severo, ma la luce degli occhi tradisce il suo senso di commozione. Mi dice “Bravo” e con la coda dell’occhio cerca il gesto di approvazione alla sua parola da parte della mamma. Lei intanto fa finta di interessarsi anche ai fornelli. Cucinera’ le mie preferite patate fritte e lo sformato di riso. Il mio corpo e’ in completo abbandono. Continua ad immergersi verso il fondo e non devo neanche muovere un muscolo. Il nero e’ abissale e sotto e’ come se ci fosse un impegno ad attendermi.

Ma quant’e’ profondo il mare? Lancio uno strillo. Potrei calcolare il tempo impiegato dal suono per andare dalla mia gola al fondo e tornare quindi alla mia gola. Moltiplicato per la velocita’ e diviso per due mi indicherebbe la distanza dalla meta. Il buio pesto intorno e’ rotto solo a tratti da alcuni lampi. Sono gli organi fosforescenti di strane creature lunghe e piatte come una suola. Intuisco un chiarore. Una candida chiazza di sabbia? No. Sembra piu’ un lenzuolo; con una forma che si agita al vento. Alcune zone d’ombra ed un paio di rilievi chiari, tondeggianti come piccoli seni. Sul margine inferiore si allungano due propaggini tornite come cosce. In un bagliore, proprio davanti ai miei occhi distinguo la curva della anche, l’inguine, il ventre. Una corrente discendente mi attrae. Il volto di mia madre e’ come quello che sta nella fotografia che ho in camera da letto, sul como’. e’ splendida. Sorride. e’ il giorno del suo matrimonio. Ha vent’anni. Capelli lunghi appena sopra le spalle, con una morbida arricciatura sulle punte. Il velo bianco e’ appuntato sulla testa e le scende lungo il corpo per la sua prima notte da donna. Ma quant’e’ profondo il mare?

Protagonista o elemento ispiratore di molte campagne pubblicitarie, il mare sa guidare le nostre emozioni anche nel breve spazio di 30 secondi

Come non restare affascinati da un enorme e placido elefante che, assetato, nuota in un mare cristallino alla ricerca di una bibita rinfrescante? Come non essere curiosi di sapere in quale parte della terra si trovano “i mari piu’ profondi e piu’ blu” in cui vivono beate le platesse piu’ fresche? Chi non ha mai sognato di trovarsi su una di quelle spiagge caraibiche, stupende, deserte, dove tutto manca tranne il divertimento e gli ingredienti per preparare dei paradisiaci cocktail? Storie, storie di 30 secondi, fatte di pochi fotogrammi e qualche nota, bastano a suscitare in noi un cosi’ vasto groviglio di sensazioni? Certo, la pubblicita’ e solita andare a frugare tra i nostri desideri piu’ reconditi, nella nostra memoria troppo distratta, fra i nostri sentimenti forse un po’ arrugginiti, oppure strapazzati dal logorio della vita moderna, dosando perfettamente immagini, suoni e parole capaci di evocare ricordi ed emozioni.
E quanti ricordi, quante emozioni sono legate al mare! Basta un semplice gioco di associazioni: mare = sole, gioco, divertimento, avventura, mistero, fascino, amore. Molto spesso accade che queste sensazioni durante l’inverno vadano in letargo; ancora piu’ spesso accade che bastino una bella musichetta, quattro campioni di calcio, una spiaggia al tramonto a farcele riaffiorare alla mente. Sembra quindi che la pubblicita’ non faccia altro che rubare immagini e parole al loro contesto abituale, ricompattarle in uno spazio di 30 secondi o di una pagina e farle rivivere per noi, vestendole di una luce nuova, reinterpretandole secondo una visione che e’, ahime’, esclusivamente commerciale. Nelle universita’ della pubblicita’ si insegna che “il messaggio pubblicitario e’ un concetto piu’ un’emozione”.
Il concetto, il significato concreto del messaggio, sta nel prodotto, nelle sue caratteristiche, e questo, a parte i bisogni fisici, difficilmente stimola altri sentimenti. Del resto, quanti bambini puo’ conquistare un bastoncino di pesce surgelato? Un bel po’, viste le vendite, ma solo se ad accompagnarli alla conquista dei mari piu’ ghiacciati e tempestosi c’e’ lui, capitan Findus: barba, baffi e giacchino stellato da lupo di mare. Quello che fa la pubblicita’ e’ arricchire i prodotti, immergendoli in situazioni emozionanti, stimolanti, ironiche, comunque coinvolgenti per gli spettatori. E le emozioni? Quelle sono in noi. La pubblicita’ non fa altro che andare li’, dove sono depositati i nostri ricordi e le nostre emozioni, e a questi unisce un “concetto”. Non dico che non ci dovremmo piu’ lamentare per il mare di pubblicita’ che invade quotidianamente le nostre case; dico che, forse, potremmo anche un po’ goderci le sue piccole, e a volte piacevoli, onde di emozioni.

A tratti lo sentivo sfuriare in un unico assolo – il Mare – di notte, al buio. Ora e’ un coro di voci bianche e mi raggiunge fin qui nella stanza. Fuori e’ Gravana (1), fuori piove. Un’eco sale, sbiadisce, muore. Piu’ in la’ un’onda vedo tornare. Ricordo, era il mare… “vortici di pesci neri, vertigini isolane, oceani e pensieri.” All’epoca vivevo a Sao’ Tome’, in una fascia di terra equatoriale circoscritta, immersa, braccata dal mare.
La mia storia in territorio africano comincia li’, nell’incantesimo che solo l’isola puo’ generare (se non e’ l’isola e’ la nevrosi). A trecento chilometri dalla Costa d’Avorio, sulla linea dell’equatore, un’antica colonia portoghese carica di frutta e colori, consuma il suo lungo sogno di vita immaginando la vita oltre mare. Un giorno un vecchio uomo capoverdiano che lavorava a casa mia mi racconto’ il sogno della sua vita: tornare nella sua isola. Era arrivato di li’ che era poco piu’ di un adolescente, schiavo dei portoghesi come tutti gli uomini della sua taglia.
Mi disse: dal mare torneranno le anime sepolte, dal mare vedro’ risorgere mia madre, dal mare veniamo noi, uomini di Capo Verde. Eravamo seduti lungo il marginal (2), di fronte casa. Era un giorno qualunque, sotto un tetto di stelle a raccontare storie. Ruiz arrotolava tabacco e a tratti, lentamente, il suo sguardo sconfinava, si immergeva nel bleu delle acque. Le sue storie svolazzavano sulle nostre teste e come tanti angeli lo guarivano da quella acuta nostalgia. Un giorno gli feci leggere una poesia che sembro’ piacergli; dopo pochi giorni ripartii per l’Italia ma quando tornai non lo vidi piu’.

Si specchiano
nelle acque
i cieli

si incrociano
mani
e occhi

oceani di verita’
separazione
carita’

(1) stagione delle piogge, in portoghese
(2) lungomare

Non mi capitava da tempo di aver bisogno di lui. Ma quella mattina cosi’ fu. Satura d’ansia e dolore, presi la macchina e imboccai senza indugiare la strada che porta dritta da lui. “E’ l’unica soluzione, ne ho bisogno”, mi ripetevo mentre fuggivo e i miei dubbi crescevano. Ma appena lo vidi davanti a me ogni pena scomparve e sentii finalmente sollievo.

Un viaggio, la sua meta
Unico rimedio all’ansia del tempo, sola medicina per la mia anima malata: il mare d’inverno. Sembrava aspettarmi, custode delle mie verita’ piu’ nascoste; allora scesi dalla macchina e mi andai a sedere sulla sabbia per creare l’atmosfera familiare di sempre. Il suo rifluire monotono e testardo risveglio’ sensazioni quasi assopite mentre piccole goccioline simili a lacrime raggiungevano il mio viso. Sembrava piangere del mio stesso dolore come solo un vero amico sa fare. Avevo bisogno di fermare il tempo, di prendermi una pausa dalla fuga ossessiva dei miei pensieri e solo la sua malinconica tranquillita’ mi avrebbe aiutato. Respirai profondamente, pochi attimi e sentii la sua voce, dominante su ogni altro suono, sorvolarmi dalle orecchie dritta al cuore. Invitava alla calma, al silenzio; spronava la mia anima a tendere l’orecchio alla voce che in me sempre bisbiglia. Mantenne fede al suo compito di mediatore fra cuore e mente. “Non aver paura di quello che provi”, sembrava dirmi. Ogni mio senso si inebriava di lui; mi pizzicava il naso con la sua brezza, bisbigliava nelle mie orecchie rendendomi sorda a ogni altro richiamo, riempiva i miei occhi con le sue danze.

Il tempo per se’
“Ogni qualvolta avrai bisogno di scendere dalla giostra, di prenderti una pausa, di fermare il tempo, sai dove trovarmi”, mi disse. Lo ringraziai con un cenno del capo, rimasi ancora qualche minuto a guardarlo; poi mi alzai e mi avviai alla macchina col cuore piu’ leggero.