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Parlare in pubblico un’arte che si può apprendere

Parlare in pubblico un’arte che si può apprendere

di Claudio Maffei

“Si alza in piedi e tra il lampeggiare dei flash e i musi lunghi delle telecamere, scruta la sala stracolma come un capo indiano, con la mano a visiera sulla fronte. Poi, Romano Prodi, attacca così’: “Dove sono i ragazzi? Ero venuto a fare un incontro con gli studenti: trovo invece professoroni, politici e televisioni”. E strappa subito la prima risata generale.

Il primo lungo applauso per l’ex presidente dell’IRI si leva invece dalla platea quando dice: “Meno esami si danno, meglio è, almeno io la penso così’, e voi?”.

Era un Prodi in gran forma quello che il 19 settembre scorso, all’Università’ Cattolica di Milano, ha partecipato al dibattito in occasione della presentazione del nuovo corso di laurea in scienze politiche. Con il suo intervento brillante ha oscurato le pur dotte relazioni di Giuliano Amato e del politologo Angelo Panebianco e sicuramente (anche senza volerlo) ha dato una bella lezione di come si deve parlare davanti ad una platea”.

La citazione è tratta da un articolo di Cristina Tirinzoni pubblicato su Espansione del dicembre 1995, dal titolo “Signore e signori sarò breve”. Una passerella ragionata dei più efficaci o più noiosi public speaker dell’azienda Italia.

L’oratoria, un’ars dimenticata.

Quando ci troviamo di fronte ad un pubblico siamo più tesi, le palpitazioni aumentano, le mani sudano e spesso siamo colti da un groppo alla gola. Questo fenomeno, del tutto naturale e comune a tutti, è chiamato “paura del palcoscenico” e ne sono vittime anche gli attori professionisti. Ho conosciuto “vecchi” uomini di spettacolo che mi hanno raccontato di provare questo timore ogni sera, anche dopo 50 anni di palcoscenico.

Tuttavia esistono persone, che riescono ad intrattenere un uditorio in maniera non solo piacevole, ma anche efficace.

Quando parlano in pubblico, per motivi professionali o anche per semplice conversazione, sanno catturare l’attenzione, seguire un’efficace logica dialettica, ricca di esempi e di informazioni pertinenti.

Di solito in questi casi si parla di doti innate. In realtà queste persone applicano più o meno consapevolmente tecniche basate su principi precisi, ormai codificati e facili da apprendere.

Nella nostra scuola non si insegna a parlare.

E’ strano, i professori insegnano a scrivere, insegnano a studiare e ritenere informazioni.

Il professore si accontenta di verificare se l’allievo ha imparato la lezione e quindi se ha immagazzinato, in modo soddisfacente, le nozioni. Come espone la materia non è oggetto di giudizio. Così i nostri ragazzi balbettano, si grattano la nuca e fanno spesso ehmm… Io credo di aver imparato a parlare nelle Assemblee del 1968 e dintorni e posso assicurare di non aver mai conosciuto critico più severo dei miei compagni di allora.

Non avrei mai pensato di dover utilizzare le tecniche apprese sul palcoscenico e negli studi televisivi per insegnarle ai manager, ma oggi è necessario più che mai sapersi presentare e, quindi, la mia arte, messa da parte, è tornata utile. Ho cominciato, dopo aver notato che tutti coloro i quali proponevano corsi per parlare in pubblico provenivano da esperienze aziendali.

Queste persone potevano tutt’al più insegnare a tenere una buona relazione ad un convegno o a gestire una riunione in azienda. Il convegno è, in realtà, una rappresentazione, uno spettacolo e spesso ha dei pessimi attori che recitano pessimi testi. Comunicare non significa solamente parlare e informare. Vuole dire qualcosa di più.

Si comunica per trasmettere qualcosa, per far capire, per influenzare, per ottenere una reazione.

Molto spesso questa reazione non corrisponde alle nostre attese, per questo è importante saper comunicare in modo da ottenere l’effetto desiderato. Tale modo di comunicare racchiude in se’ tre concetti basilari:

– Capire

– Trasmettere

– Mettersi in relazione.

I disturbi del passaparola

Il fenomeno del telefono senza fili è sicuramente noto a tutti noi. I bambini amano divertirsi e ridono delle distorsioni verbali che provoca il passaggio di una parola di orecchio in orecchio. Lombardi e Varvelli citano il seguente esempio in “Personale e Lavoro”. Il Capitano al Tenente:

“Come sa, domani alle ore 9, avremo l’eclissi di sole. Ciò non avviene tutti i giorni. Conduca gli uomini in tenuta da campagna, alle ore 7, in Piazza d’Armi e così potremo vedere questo raro fenomeno. Io darò le necessarie spiegazioni. In caso di pioggia non vi sarà nulla da vedere e, quindi, farà passare gli uomini in palestra.”

Il Tenente al Maresciallo:

“Per disposizione del capitano, domani alle 9, vi sarà l’eclissi di sole con istruzioni del Capitano stesso; il che non avviene tutti i giorni. Se il tempo sarà piovoso non avremo nulla da vedere fuori e l’eclisse avrà luogo in palestra.”

Il Maresciallo al Sergente:

“Per ordine del signor Capitano, domani alle ore 9 inaugurazione dell’eclissi di sole, in tenuta da campagna. Il signor Capitano darà in palestra le istruzioni necessarie nel caso dovesse piovere, cosa che non avviene tutti i giorni”.

Il Sergente al Caporale:

“Domani alle 9 in tenuta da campagna, il Capitano farà eclissare il sole in palestra, con sue istruzioni se farà in tempo. Se piove non ci sarà l’eclisse, sebbene questo non avvenga tutti i giorni.”

Il Caporale ai Soldati:

“Domani, alle ore 9 del mattino ci sarà l’eclissi del Capitano in tenuta da campagna per effetto del sole, se sarà bel tempo. Se piove l’eclissi avverrà in palestra anche se questo non accade tutti i giorni.”

I Soldati fra loro:

“Domani alle 9 pare che il sole, in tenuta da campagna, faccia eclissare il Capitano e le sue istruzioni. Peccato che questo non accada tutti i giorni.”

Ricordo il caso della filiale italiana di una grande multinazionale.

Un anno partecipai ad una conferenza stampa dove persone dall’aspetto dimesso e tentennante ci annoiarono non poco. L’immagine che dettero della loro società non era certamente delle più incoraggianti.

Un anno dopo quelle persone non sembravano più le stesse, pareva fossero state sottoposte ad un autentico lavaggio del cervello. Allegre ed aggressive disegnarono un’immagine dell’azienda oltremodo positiva ed ottimista.

Cos’ era successo?

Che il management si era reso conto dell’insufficienza della loro preparazione e vi aveva posto riparo.

Anche la rassegna stampa di quell’evento e quindi il ritorno in termini di comunicazione, sottolineò il successo del nuovo atteggiamento.

Abbiamo parlato della paura del palcoscenico che colpisce anche gli attori professionisti.

La preparazione puntigliosa: un’arma contro l’emotività.

Sembra che anche gli oratori più esperti subiscano una trasformazione negativa nel momento in cui si trovano a dover affrontare un’attenta e spesso critica platea.

L’emotività, caratteristica di ognuno di noi anche apparentemente calmissimo, non riesce ad essere repressa in situazioni pubbliche e tende a manifestarsi in modo evidente.

Per ovviare, almeno in parte, a questo inconveniente bisogna prepararsi. Essere preparati significa accettare, con tutta l’umiltà del caso, i consigli di chi ne sa di più.

E’ incredibile quanti ottimi dirigenti sottovalutino un momento così delicato come l’esposizione pubblica della loro immagine e della loro parola.

Nessuno dovrebbe mai leggere il testo del proprio intervento. La presentazione risulta piatta e, soprattutto, gli spettatori si innervosiscono.

Infatti, essi avrebbero potuto leggere quel testo da soli senza il disturbo di riunirsi nello stesso posto magari dopo viaggi di centinaia di chilometri.

Tuttavia portarsi in tasca una copia scritta di ciò che si intende dire è sempre una sicurezza. A tutti i principianti è raccomandabile questa buona abitudine.

Essa è come la rete per i trapezisti del circo, nessun trapezista diventerebbe mai esperto se non usasse la rete quando è un principiante.

Portarsi il testo/relazione/presentazione in tasca è un’ancora di salvezza, una propria personale tranquillità psicologica e nel caso in cui la gola si secchi, si deglutisca con difficoltà, le mani sudino e tremino leggermente, e la mente si rifiuti categoricamente di seguire un corso logico, insomma se proprio ci manca la parola, leggere sul testo preparato è sempre meglio che restare completamente a bocca chiusa.

Tuttavia l’ancora di salvezza migliore è sempre una buona preparazione.

Il modo migliore per controllare la qualità di ciò che ci prepariamo a dire ad un pubblico è fare parecchie prove davanti ad una telecamera.

Ascoltando la propria voce e rivedendo la propria performance chiunque si renderà conto degli errori che commette e dei difetti che emergono dalla propria esposizione. Gradualmente, in prove successive, egli potrà correggerli fino a quando non sarà soddisfatto.

La maggioranza delle persone tende comunque a “farla troppo lunga”.

Riascoltandosi si può imparare non solo a parlare più rapidamente o più lentamente e per un tempo totale più o meno lungo, ma anche a dire le stesse cose in 10 invece che in 20 minuti. Ritengo che nessuno dovrebbe mai parlare più di 45 minuti poiché è scientificamente provato che la curva dell’attenzione crolla definitivamente dopo questo periodo.

I rischi dei supporti visivi

I supporti visivi, dalle fotocopie da distribuire al pubblico alle presentazioni audiovisive, possono arricchire una presentazione verbale. Naturalmente non sono adatti a tutte le circostanze, ritengo però che oggi, soprattutto nell’ambiente aziendale, ci sia un abuso di tali mezzi. Utili durante lezioni, conversazioni o presentazioni, tali supporti sono certamente fuori luogo in un discorso tenuto durante una cerimonia o alla fine di un banchetto.

Il cervello umano recepisce meglio gli stimoli visivi che quelli uditivi.

Quando si entra in una stanza in cui è accesa una televisione, si può notare come gli occhi della maggior parte dei presenti restano fissi sullo schermo pur ascoltando le parole di chi è appena entrato.

Allo stesso modo un supporto visivo distoglie l’attenzione del pubblico da qualunque altro stimolo, compresa la voce dell’oratore. Di conseguenza il discorso e la presentazione visiva non devono essere in concorrenza fra loro. E’ bene utilizzare i supporti visivi soltanto per illustrare un concetto, non certo per affermarlo.

Ho visto persone proiettare delle slide e leggerle, dando a queste la funzione di scaletta personale e non di supporto comunicazionale.

Quando il pubblico si trova di fronte ad una informazione visiva è probabile che la scorra e che si faccia un’idea di ciò che verrà detto e che tragga quindi le proprie conclusioni prima che l’oratore abbia aperto bocca. In questo modo, l’oratore perderà completamente il controllo del processo mentale del pubblico.

Come interpretare i messaggi della platea

Una delle cose più difficili è captare i messaggi che provengono dal pubblico.

Possono indicare noia, interesse, approvazione e disapprovazione.

Il mio amico Mario Silvano diceva di non dare molta importanza a qualcuno che, durante un suo discorso, guardava l’orologio. Tuttavia quando questo qualcuno si toglieva l’orologio e lo picchiettava con il dito per verificare se per caso si era fermato, allora voleva  dire che si era ora di smettere.

I grandi attori leggono i segnali provenienti dal pubblico in modo innato sanno quando forzare la mano, quando attendere l’applauso, quando provocare la risata; tuttavia chiunque di noi può imparare a “udire” il linguaggio non verbale che proviene dai nostri interlocutori.

La programmazione neurolinguistica insegna che le persone percepiscono le informazioni attraverso tre filtri o canali d’accesso: auditivo, visivo e cinestesico.

Non è difficile individuare il canale di comunicazione degli interlocutori e mettersi così sulla stessa lunghezza d’onda.

E’ utile, in questi casi, ascoltare i cosiddetti predicati verbali e cioè i vari modi di dire.

La persona sensibile al filtro visivo userà ad esempio verbi come vedere, dipingere, chiarire, focalizzare, osservare, schematizzare, ed aggettivi come chiaro, scuro, limpido, fosco, colorato, brillante.

Chi privilegia il filtro auditivo si esprimerà con frasi di tipo “ti ascolto attentamente”, “qualcosa mi dice che”, con verbi come suonare, intonare, sussurrare, dire, ed aggettivi come sordo, crescendo, armonico.

Il tipo cinestesico utilizzerà espressioni come: “ho afferrato il concetto”, “sono molto sensibile” e “ho la sensazione”. Verbi come contattare, impressionare, sensibilizzare, muoversi; aggettivi some soffice, duro, duttile, corposo.

Riuscire a valutare la tipologia del nostro interlocutore ci consentirà di metterci nella sua stessa lunghezza d’onda.

Il tipo visivo viene molto condizionato dalla posizione dell’interlocutore, vicino o lontano, in piedi o seduto, fermo o deambulante.

Il tipo auditivo da’ molta sostanza alle parole, ama le domande precise e circostanziate, il linguaggio curato, le pause per digerire i concetti senza essere incalzato.

Il tipo cinestesico ama “l’effetto pelle” in quanto capta sensazioni positive e negative. E’ impulsivo, tocca le persone mentre parla, entra subito in confidenza dando del tu e preferisce gli esempi pratici alle disquisizioni filosofiche.

Non è certamente facile stabilire in una platea di 50 persone se la maggioranza di questi sono visivi, uditivi o cinestesici, ma ricordiamoci che queste persone giudicano il nostro comportamento, e che quindi i nostri atteggiamenti e la nostra mimica hanno più importanza di quanto non pensiamo.

Ricordiamoci, ad esempio, che certe gestualità hanno significati ben precisi: mai tenere le mani chiuse a pugno, mai contorcerle; far schioccare le dita, mangiarsi le unghie e compiere gesti come aggiustarsi la cravatta, sistemarsi la giacca o i pantaloni: sono indici di nervosismo o insicurezza. Le braccia conserte sono indice di chiusura verso gli altri.

L’importanza di saper ascoltare

Un giorno Paolo VI visitava un seminario ed un giovane seminarista gli chiese: “Santo Padre, come farò ad essere un buon prete?” e il Papa rispose: ” Fai sentire al tuo interlocutore la sua unicità”.

Dialogare non vuol dire soltanto parlare, ma sapere ascoltare.

Gli altri si accorgono se noi siamo interessati a loro o no.

Dobbiamo identificarci con il nostro pubblico, renderlo partecipe ed adeguarci ad esso. Dale Carnegie, grande maestro americano, autore di “Come trattare gli altri e farseli amici” dice: “Dovendo recarmi in un paese o in una città, cerco di arrivare con un certo anticipo in modo da poter vedere il postino, il barbiere, il direttore dell’albergo, il preside della scuola, alcuni segretari e poter entrare nei negozi per parlare con la gente, e capire qual è stata la loro storia e quali opportunità hanno avuto. Poi tengo la mia conferenza e parlo a quella gente degli argomenti che più gli stanno a cuore”.

Carnegie si rende perfettamente conto che la riuscita della comunicazione dipende dalla capacità dell’oratore di rendere il pubblico partecipe. Più volte è stato detto che dobbiamo smetterla di parlare a… e cominciare a parlare con… ma questo significa: – Mostrare di saper ascoltare – Lasciare sempre la possibilità di replica – Dimostrare sempre rispetto per l’avversario – Rispondere sempre a una domanda diretta o indiretta – Dimostrare di essere interessati agli interventi degli altri (anche se non ne avete l’intenzione o non ne varrebbe la pena) – Nel riprendere la parola dopo un altro oratore, fare specifici riferimenti al discorso di chi ci ha preceduto – Dimostrarsi sempre concilianti anche se fermi nei principi – Non raccogliere mai una provocazione – Non generare polemiche e fare attenzione a non raccoglierne – Non aggredire verbalmente l’avversario o la platea – Essere cortesi ed educati ma non ossequiosi – Non mostrare riverenza o senso di inferiorità, solo rispetto e considerazione.

Espedienti contro i provocatori

Le persone più maligne e indisponenti, dice Heinz Goldman, uno dei massimi esperti internazionali di comunicazione, si siedono sempre in fondo alla sala quando state per tenere una conferenza e cercano di formare il “branco”. Cercate di farle sedere davanti, saranno più scoperte, più timide, perciò meno aggressive.

Quando vi aggrediranno con le loro domande malefiche, se sono ancora dietro, cercate di farle venire più avanti.

Basta dire: “non si sente, può venire, per favore, più avanti?”

Il lupo senza il branco è un agnello, accoglietelo con calore, disponibilità e gentilezza; riformulate la sua domanda, vi accorgerete che la sua aggressività iniziale si è spenta. Non drammatizzate mai. In un clima di simpatia si supera ogni problema.

Infine, due ultimi consigli prima di concludere questa carrellata certamente troppo breve.

Attenti a non divorare il “gelato”

C’è un grande nemico dell’oratore in erba, si chiama microfono. I principali errori dettati dall’ansia e dalla mancata abitudine sono tenerlo serrato alla bocca: il suono esce distorto e crea fastidio nelle orecchie dell’uditore. Tenerlo troppo distante dalla bocca: praticamente è come non averlo, ma ancor peggio, farlo sventolare come fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra. In questo caso la voce diventa irregolare, va e viene, e questo genera immediatamente nel pubblico disattenzione ed ilarità.

Come si usa il microfono

La distanza media è di circa 10 cm (molto dipende dalla propria voce e dalla potenza dell’impianto, ma sono fattori facilmente valutabili in loco).

Dovendo sostenere una relazione, consiglio di fare la classica “capatina sul luogo del delitto” prima dell’inizio, per verificare il funzionamento.

Se il microfono è mobile, fare attenzione: avrà un interruttore per accenderlo e spegnerlo e farà terribili fischi incrociando un altro microfono.

Parlando, guardate sempre in viso il pubblico, in modo da captare immediatamente se il suono arriva nel modo giusto, se si notano le espressioni di chi non sente o sente troppo forte.

Non farsi trasportare da un eccessivo protagonismo, cosa che la presenza del microfono provoca in alcune persone.

Non lasciatevi intimorire dallo strumento ha solo la funzione di amplificare la vostra voce, null’altro.

Se la platea è particolarmente vicina o esigua e l’acustica della sala lo consente si può farne a meno, dopo aver chiesto all’uditorio se è d’accordo.

Non improvvisatevi comici

Per finire, attenti a scherzi e barzellette. Anche se l’umorismo, insieme alla minigonna, è uno dei pochi motivi validi per alzarsi dal letto alla mattina, raccontare storielle è un mestiere.

Vi sarà certamente capitato di sentire un conferenziere raccontare una barzelletta e, fra il pubblico, nessuno che sorridesse. Rideva invece come un matto, dietro il suo tavolo con il panno verde, il conferenziere che, riuscendo poi a controllarsi, continuava dicendo “beh, ora, seriamente…”

Raccontare storielle ad una grossa platea magari non sarà una forma d’arte, ma, per farlo con successo, bisogna essere professionisti, commedianti, e bisogna essere addestrati per imparare il tempismo, la scelta delle parole, il modo di dire la frase finale ad effetto. Soprattutto bisogna imparare a decidere rapidamente in base all’umore del pubblico se si può raccontare una barzelletta e quale. E’ difficile imparare tutto ciò. Posso soltanto dire quali regole seguo io, perché ho constatato che funzionano.

Fate notare qualche incongruenza ed esageratela: questo tipo di umorismo, in genere, ha più successo della solita barzelletta stantia sulle suocere o sui carabinieri.

Il pubblico apre il cuore e la mente all’oratore che, deliberatamente, si sgonfia prendendosi in giro o richiamando l’attenzione su una propria debolezza.

Per creare un clima di allegria è divertente raccontare un aneddoto su se stessi, dipingersi in una situazione ridicola o imbarazzante – pensate a Fantozzi, è uno dei personaggi più abili nel prendersi in giro, nel farsi beffe di se’. La gente si riconosce nell’uomo comune con le sue difficoltà ed i suoi limiti, non ama i “palloni gonfiati”.

Per riassumere, otto regolette per incantare un uditorio

  1. Sorridete e mettete passione nell’esposizione
  2. Non leggete, preparatevi prima e parlate a braccio
  3. Usate parole semplici e concrete, frasi brevi
  4. Fate esempi, raccontate aneddoti, usate metafore
  5. Fissate lo sguardo, a turno, su tutto il pubblico presente in sala
  6. Non abusate degli audiovisivi e soprattutto non leggeteli
  7. Variate il tono della voce e non restate impalati
  8. Siate brevi e rispettate rigorosamente il tempo che vi è stato concesso.