La comunicazione interpersonale
Da “Trentino Industriale”
La comunicazione interpersonale
Una serata con Claudio Maffei per capire, farsi capire ed
ascoltare gli altri.
di Manuel Furlani
L’incontro con Claudio Maffei di giovedì 29 gennaio a Villa Madruzzo ha costituito per i Giovani Industriali di Trento l’occasione di affrontare un tema di grande attualità e di indubbio interesse: la comunicazione interpersonale. Maffei è infatti considerato nel mondo della formazione uno degli esperti più noti nel campo delle
relazioni interpersonali. Più che di una piacevole conversazione – queste infatti erano le premesse – si è trattato di assistere ad una vera e propria performance, che ha unito doti di attore a solide conoscenze specifiche.
Dopo un inizio ad effetto sul potere della parola, Maffei ha sottolineato l’importanza nella comunicazione del non-detto, dei messaggi cioè trasmessi attraverso atteggiamenti, gesti volontari e involontari e naturalmente anche attraverso il look perché ogni comportamento è comunicazione.
Un fuoco di fila di battute e gag ha colpito non solo i più frequenti equivoci comunicativi – perché, al di là delle barriere linguistiche, arabi e americani oppure giapponesi e italiani non si capiscono? – ma anche la mancanza di originalità e, dunque, di efficacia di molti massaggi scritti, ripetuti in maniera sempre identica.
Particolare importanza è stata data, inoltre, al saper ascoltare gli altri, una capacità che chi vuole comunicare in modo efficace deve costantemente affinare, infatti il risultato della comunicazione è la risposta dell’altro.
Il modello di “comunicatore” al quale Maffei si ispira prevede, sorprendentemente, un recupero della retorica classica ciceroniana e, dunque, oltre alla conoscenza degli argomenti e alla loro disposizione nel discorso, anche la memorizzazione – bando ai discorsi letti in pubblico! – e lo stile nel rivolgerli, che deve essere il più possibile naturale, ma non per questo lasciato al caso.
Le domande del pubblico, piacevolmente intrattenuto dalla verve di Maffei, hanno riguardato, tra l’altro, anche la comunicazione via Internet e le recenti acquisizioni americane della programmazione neurolinguistica.
Comunicare con gli altri è un atto di umiltà, bisogna ascoltare con amore e parlare con amore.
La serata è poi proseguita in forma conviviale, per esercitarci fin da subito con le nuove nozioni apprese.
Chi è Claudio Maffei
Nato a Milano nel 1952, è considerato, dal mondo della formazione, uno degli esperti più noti nel campo delle relazioni interpersonali.
E’ stato ed è consulente di manager pubblici e privati.
Durante gli anni dell’Università ha maturato esperienze in campo artistico, teatrale e televisivo sia come autore, sia come attore.
Licensed Trainer in Programmazione Neurolinguistica.
Presidente della Ferpi (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana) e dell’I.C.I. (Interassociazione della Comunicazione d’Impresa), membro del consiglio direttivo di IPR (Istituto per le Relazioni Pubbliche) e del consiglio europeo della CERP (Confédération des Rélations Publiques).
La sua attività di consulenza abbraccia i più svariati settori. Dall’industria alla politica, dal turismo alla pubblica amministrazione.
E’ autore di libri, dispense universitarie e altre pubblicazioni.
Dal teatro alle convention il passo è breve, anzi nullo. Perché anche i conferenzieri sono, a modo loro, attori. Il guaio è che spesso non sanno recitare. E qui subentra lui. Ex cabarettista, ex autore di testi comici, è ora il formatore del gotha oratoriale italiano. Lo ha fatto per la politica, lo fa per l’impresa, per i giovani. Cui insegnerà a comunicare. Ovvero, ad ascoltare.
“La mia vita è segnata da un peccato originale”, attacca. Quale?, gli chiedo. “Quello di essere nato nel 1952”. E allora? “Allora è presto detto. Nel 1968 avevo 16 anni. E avere avuto sedici anni nel Sessantotto significa averne combinate di tutti i colori”.
Sorride sornione dietro la barbetta brizzolata questo ex ragazzo che tradì le nobili origini andando via di casa con la chitarra in cerca d’arte e d’amor. Sorride sornione, perché la vita gliel’ha davvero fatta grossa. Ha contestato il sistema, ma poi ne è divenuto un pilastro, a contatto com’è con politici, amministratori delegati, direttori generali; ha contestato i capi, ed è finito a comandare qualcosa come 12.000 persone in una volta sola (è stato presidente dell’Interassociazione per la Comunicazione d’Impresa, la madre di tutti i pubblicitari, i PR e i meeting planner italiani); e per concludere, ha contestato la scuola – come tutti i suoi coetanei – e di mestiere si ritrova a fare il formatore. “Il” formatore, pregasi notare, mica uno qualunque: il più grande trend setter dell’oratoria nazionale da palcoscenico.
“In realtà con la parola scritta e verbale ho avuto a che fare da subito”, racconta, “perché nel 1972 iniziai a fare il cabarettista. Ho scritto testi per la TV con Cino Tortorella e Giancarlo Magalli, e sono stato un pioniere delle emittenti private apparendo in video negli anni Settanta con Enzo Tortora, Ettore Andenna, Renzo Villa e Lucio Flauto, il mitico quartetto di Antenna 3 (una rete privata milanese, ndr). Ho calcato i palchi del Derby, del Capolinea, della Ca’ Bianca incrociando gente come Jerry Calà e Diego Abatantuono. Poi feci il figliol prodigo, tornai a casa e qui ebbi l’incontro della vita. Una sera a cena, con Giovanni Spadolini. Mi disse tu potresti fare un lavoro insegnare ai politici a parlare in pubblico. Ricordo di avergli risposto ma è un lavoro, questo? E lui sorrise sì, e ci penso io a trovarti i clienti. Ecco, da quel momento il “parlare in pubblico” è stato il mio mestiere. Per diversi anni ebbi sotto tutela ministri, deputati, sindaci di grandi città. Poi ho travasato il know how nell’impresa privata. Il che significa industriali, presidenti, direttori marketing. Ho pure scritto dei libri, sono il direttore responsabile di tante riviste e professore a contratto nell’università di Bologna (dove insegno relazioni interpersonali a Scienze della Comunicazione) e al Master di Rimini in comunicazione turistica”.
Insomma, ce n’è abbastanza per definirti comunicatore
“Direi. Anche se oggi, come formatore a tempo pieno, comunico meno che in passato. Per un certo periodo ho avuto un’agenzia di relazioni pubbliche con cui ho costruito l’identità di molte imprese. Lavoravo in modo abbastanza prepotente, se mi passi il termine. Andavo dal direttore generale e gli chiedevo carta bianca per occuparmi di tutto, ma proprio di tutto, dal colore delle cravatte al tono del centralinista. La realtà – di cui ancora pochi si rendono conto – è che la comunicazione è la “cabina di regia” di un’azienda. È lo strumento che le permette di distinguersi da tutte le altre. Che cosa si pretende, dunque, da un comunicatore? Che si limiti a prendere ordini?”.
E con la stessa “prepotenza” tu formi i parlatori?
“Mah lì il problema è un po’ diverso perché manca proprio la cultura di base. Per dirne una: nessuno sa che i convegni, le convention i talk Show hanno regole molto simili a quelle dello spettacolo. Tant’è che il rapporto palco-audience è lo stesso che a teatro. Un presidente di multinazionale che sale su un palco è come un attore che recita: questa è una regola, una regola ferrea, che dovrebbe essere pacifica per tutti. Ma non lo è. E si vedono le conseguenze: i testi sono penosi e gli “attori” son dei cani. Rendiamoci conto che nemmeno Gigi Proietti riusciva a dare emozioni quando leggeva un foglio scritto, perché gli mancava il contatto d’occhi con la platea. Leggere è di per sé notarile. Tuttavia i congressisti che hanno il coraggio di “parlare” sono pochissimi. E non è solo questione di coraggio. Anche di rispetto. Mettiamoci nei panni di chi per arrivare alla convention ha affrontato un viaggio; arriva, si siede, e chi ti trova? Uno che legge. Ma insomma!, potrebbe pensare: anziché scomodarmi non poteva inviarmi una mail?”.
Strana questa lacuna in piena era della comunicazione
“Strana o indotta dai mass media? Mi spiego. La nostra generazione ha modelli che nessun’altra ha mai avuto per bravura e professionalità. Siamo i primi a permetterci il lusso di sederci davanti alla TV e guardare fuoriclasse come Pippo Baudo o Panariello. Gente straordinaria, che finisce per sedimentarsi nei nostri ricordi ed ergersi a pietra di paragone. Ora, con confronti del genere il commendator Tibiletti, presidente della Tibiletti SpA, che volonterosamente prepara un filmato aziendale e lo mostra orgoglioso ai dipendenti perché l’ha girato suo figlio che con le videocamere è tanto bravo, che figura fa?”.
Quale antidoto proponi?
“I miei corsi da Formattore. Li chiamo così. Sono lezioni di improvvisazione teatrale per manager. E parlo di improvvisazione perché a fare la qualità di una convention è la reazione all’imprevisto. Se ti salta la luce proprio mentre stai cominciando una presentazione non puoi stare zitto in attesa del tecnico, fai una figura da mentecatto. Viceversa devi tirar fuori qualcosa di brillante, di fantasioso, che ti dia l’apprezzamento dell’audience. Io per primo sperimento l’efficacia di questo assioma. Non sai quante volte mi è capitato di entrare in aula, naturalmente con ben chiaro il programma di quanto avrei dovuto insegnare, ed essermi trovato di fronte a una platea composta per metà da persone che avevano già seguito un mio corso. Che fine avrei fatto se non avessi saputo, di volta in volta, reinventarmi una scaletta sui due piedi?”.
Esistono regole fisse per gli oratori?
“Come no. La principale consiste nel lavorare molto sull’inizio e sulla fine dei discorsi. Per catturare l’attenzione e lasciare un bel ricordo. Non si scappa: occorre avere pronti dieci esordi e dieci conclusioni, e saper riconoscere, sul momento, quali tirare fuori. Gli attori della commedia dell’arte conoscevano a memoria un centinaio di testi e sceglievano quale recitare a seconda degli spettatori. Questa della scelta era la parte più difficile del loro mestiere, perché venivano pagati solo se avevano fatto ridere molto o piangere molto. Per cui, all’apertura del sipario lanciavano un occhio al capocomico, che si era fatto un giro per il pubblico “tastandone” in incognito gli umori, e a un suo cenno dovevano cambiare tutto. Tutto. All’istante. Direi che per i parlatori di oggi, che possono limitarsi all’incipit e al finale, è tutta un’altra vita”.
Per tornare alla comunicazione, qual è il rapporto tra la pubblicità e il below?
“Di integrazione, assolutamente. Concorrono in egual misura a creare l’identità dei prodotti. E Dio solo sa se non ce n’è bisogno. Guarda il turismo io ho fatto parte della squadra di PR che ha rimesso in sesto l’immagine turistica del Piemonte, e naturalmente abbiamo svolto molta comunicazione tradizionale, ma anche attività ad hoc. Il risultato? Torino è la prima città di pianura della storia ad avere avuto l’assegnazione di un’olimpiade invernale! Le gare di sci si terranno altrove, d’accordo, ma gli altri sport si disputeranno lì. E questo perché? Perché siamo stati bravi a “mostrare” (e valorizzare) la regione nel complesso dei suoi plus, dal cibo all’arte, dalla natura all’industria. Nulla del genere sarebbe stato possibile se non avessimo integrato la pubblicità agli eventi. E ai pubblicitari ripeto occhio a non sottovalutarli, questi eventi. Avete appena iniziato a farci i conti”.
Che cosa farai nel prossimo futuro?
“Continuerò a insegnare, ormai faccio solo quello, più per missione che per denaro. Voglio diffondere la cultura della comunicazione quale – come dicevo prima - “cabina di regia” della strategia d’impresa, e integrare la facoltà di Scienze della Comunicazione, che di fatto lanciai io presentandone a Siena il primo piano di studi nel 1987, ma i cui docenti di oggi mi paiono poco sensibili alle tecniche del domani. Ebbene tenterò di insegnarle io queste tecniche, aprendo una “bottega” mia, e svincolandomi, nei metodi, da testi che con la comunicazione vera hanno poco da spartire”.
Ma per te, comunicatore per vocazione, che cosa significa comunicare?
“Significa ascoltare, amico mio. Ascoltare, e far capire a chi ti parla che ciò che dice ti interessa davvero”.